Tutti i videogame hanno qualche piccola falla qui o là. È naturale e spesso perdonabile. Alle volte, però, non possiamo proprio passarci sopra. Cosa può insegnarci The Witness?
Rabbia.
Questo articolo vuole parlare della rabbia. Del profondo fastidio che sfocia in improperi non adatti all’udito di persone deboli di cuore. Rabbia causata da cosa, però, bisogna domandarsi.
Se una persona gioca almeno da qualche anno con i videogame avrà obbligatoriamente vissuto l’attimo in cui ci si rende conto che il videogioco ha appena commesso un grave errore. Che qualcosa di serio è andato storto. E noi videogiocatori, soprattutto in quest’era digitale, non siamo esattamente pronti a lasciar correre.
Ovviamente è capitato anche a me. Più volte. Tra queste c’è una situazione più particolare delle altre e credo valga la pena analizzarla. Quindi chiamo a testimoniare l’accusato: The Witness.
The Witness: colori, strutture, linee
The Witness viene allineato dal team capitanato da Jonathan Blow (non vi dice nulla Braid?) il 26 gennaio 2016. Stiamo parlando di un puzzle game in prima persona leggermente atipico, a metà tra l’indie e il AAA. Invece di proporre una serie di enigmi di difficoltà crescente, posti amabilmente in fila uno dietro l’altro, The Witness ci dà accesso a un’intera isola (quasi) esplorabile nella sua interezza fin dal primo istante.
Nell’attimo in cui iniziamo la nostra avventura, nei panni di un indefinito essere umano, ci troviamo in un corridoio bloccati da una porta: l’unico elemento interagibile è un pannello affisso sulla stessa. Su questo pannello vediamo un breve segmento, con un pallino a una delle estremità. Premendo il tasto di interazione la visuale si blocca e si attiva un piccolo puntatore che possiamo muovere a piacere: posizionando il puntatore sul pallino e tenendo premuto un tasto notiamo che l’estremità opposta del segmento lampeggia. Capiamo che dobbiamo semplicemente tracciare una linea. Molto bene. Questo è tutto quello che puoi e devi fare in The Witness. Un po’ poco? Assolutamente no.
Dopo il primissimo enigma ce ne si presentano altri (piccoli labirinti di linee in cui bisogna trovare il percorso giusto verso l’uscita lampeggiante) e una volta completati ci saremo liberati di questo tutorial indiretto. Attraverso di esso capiamo una delle caratteristiche della filosofia di gioco: nessuna spiegazione, nessun tutorial diretto del tipo “fai così e cosà”.
Le regole del gioco
Svincolati dalle iniziali restrizioni, possiamo ora andare dove più ci aggrada. Non che sia così semplice.
The Witness, o meglio la sua isola, si divide in una serie di regioni (facilmente distinguibili per setting e colori). Ogni regione raccoglie al proprio interno un gruppo di enigmi sempre espressi attraverso labirinti composti da linee. C’è sempre un punto di partenza, c’è sempre un punto di arrivo. C’è sempre un faro… No, questa è un’altra cosa.
Cosa crea diversità, in The Witness? Le regole. Ogni regione ha una propria regola (o in alcuni casi somme di regole) che deve essere intuita attraverso gli enigmi iniziali. Questi saranno pannelli semplicissimi che potremo risolvere anche a caso in pochi secondi, ma non è quello l’obbiettivo. Attraverso la risoluzione di quei primi puzzle dovremo dedurre la regola. Per poi applicarla a enigmi più complicati. Ad esempio, una delle prime in cui ci imbatteremo consiste nel creare un percorso nel labirinto che tenga separate le zone nere da quelle bianche. Notiamo quindi un’altra caratteristica della filosofia di gioco: una sola idea di base, innumerevoli varianti.
Ovviamente può capitare di bloccarsi. Forse non riusciremo a intuire la regola di una zona, o forse semplicemente uno degli ultimi enigmi ci sta facendo sbattere la testa un po’ troppo. Cosa succede in questi casi, di solito? Ci si stufa e forse si abbandona l’opera, dopotutto: perché dovrei impegnarmici? Fortunatamente viene in soccorso la filosofia di gioco: puoi andare dove vuoi, se ti blocchi in quest’area vai in un’altra e ritorna quando ti sentirai pronto. Fidatevi, funziona. Ho abbandonato un enigma per circa venti ore: poi sono tornato (carico di esperienza accumulata in altre zone) e in pochi secondi ho capito cosa dovevo fare.
The Witness: la natura del gioco
Di area in area, di regola in regola (e non ne ho parlato esaustivamente perché distruggerebbe il gioco sapere qualcosa di più preciso), ci muoveremo in un’isola bellissima ma vuota. Non un’anima viva, né umana né animale, solo strane strutture, edifici, ponti e cancelli. Sparse in giro troveremo alcune criptiche registrazioni audio. C’è un fondo di senso in The Witness, ma la verità è che non è così importante.
C’è un obbiettivo, chiaramente. Ogni regione protegge un proiettore, un macchinario che, una volta attivato con la risoluzione dell’enigma finale, spara un raggio verso la cima di una montagna. Accesi tutti i proiettori avremo accesso alla zona finale che saprà di certo mettere a dura prova la nostra mente.
Nel corso delle trenta e più ore che saranno necessarie per vivere almeno la parte principale del gioco avremo capito la vera e fondamentale caratteristica della filosofia di The Witness: la calma. Non bisogna giocare di fretta, cercando di risolvere tutto a tempo record. The Witness è pace.
Tutto ciò che non posso accettare
Una cosa bellissima dei videogame è che possono essere quello che vogliono. È sufficiente definire delle regole, una filosofia di base.
E qui arriva il punto del discorso. Qual è il più grave peccato di un videogame? L’incoerenza.
Sì, lo so. Sembra una di quelle risposte preconfezionate. “Cosa non ti piace negli altri?” “L’incoerenza.” In questo caso però parliamo di un videogame e forse non tutti penserebbero a questa risposta. Forse per alcuni il difetto maggiore è una veste grafica poco curata. Per altri la mancanza dei sottotitoli italiani, o addirittura del doppiaggio italiano. Oppure la scarsa longevità. Per me invece il problema più grave è quando un gioco ti dice a chiare lettere quali sono le regole e poi le sovverte.
Quando sovverte le regole The Witness? Nel post-game. Nella vera sfida finale. Una serie di enigmi a tempo. Fretta. Una sfida che si basa sulla fretta. A priori, questo è sbagliato. Non è accettabile. [Inserire improperi non adatti ai più sensibili]. Inoltre gli enigmi cambiano a ogni tentativo, sono moltissimi e sono da completare in un tempo totale assurdamente basso.
…dopo la tempesta
Questo articolo parla di rabbia, ma vuole parlare anche di calma.
Io adoro The Witness (poiché va persino oltre il concetto di colpo di genio) e ho dovuto trovare il modo di perdonalo. Come ho fatto? Ho letto tra le righe. Non so se ho ragione, o se è solo una illusoria opera di autoconvincimento (molto probabile), ma ho un’idea che porterò sempre nel cuore e che mi ha permesso di dormire sonni tranquilli. Questa sfida finale, che rompe la filosofia di gioco, che sembra farti una pernacchia, è una piccola (potenziale) vendetta.
Nei puzzle game è facile barare, più che in ogni altro genere. Basta controllare la soluzione e il gioco è fatto. Non servono capacità manuali. In Dark Souls puoi scoprire tramite la wiki a cosa è debole un boss, puoi farti dire quali sono gli equipaggiamenti migliori se tu non sei in grado di capirlo da solo, ma alla fine, se con il controller in mano sei un incapace, morirai e basta. Ma non nei puzzle game. È tremendamente facile barare e sprecare il potenziale del gioco.
Con quest’ultima sfida non esiste un modo semplice per barare, però. C’è un metodo, ma risulta complicato e richiede comunque di saper risolvere gli enigmi. Otterresti, inoltre, solo una vittoria monca, non conquisteresti la superiorità morale che questa sfida rappresenta.
Io quindi non completerò mai questa sfida, né barando né sconfiggendola lealmente. Perché questa sfida per me rappresenta il rispetto che provo per questo gioco e il suo creatore. Perché io ho deciso di rimanere fedele alla filosofia di The Witness, di non cadere nell’incoerenza. Ho deciso di mantenere la calma.
E voi? Quale pensate sia il più grave peccato di un videogame? Vi siete arrabbiati? E poi, avete trovato il modo di riottenere la calma? Diteci la vostra!
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