È giusto impegnarsi in un videogame? Cosa potremmo mai ricavarne? Chiediamolo a The Binding of Isaac e a Virginia: due diversi tipi di difficoltà!
I videogame sono un passatempo (che può insegnare molto). Al di là di chi ci crea un lavoro attorno, il videogiocatore medio vuole solo svagarsi. Ognuno lo fa a proprio modo, ma di certo non desidera che diventi un impegno.
Arriva un momento, quindi, in cui scatta qualcosa e sentiamo l’urgenza di abbandonare il controller, estrarre il disco e passare a altro. Un attimo in cui ci diciamo: chi me lo fa fare? Perché dovrei intestardirmi su questa cosa? Perché provarci ancora? Cosa potrei ricavarne?
Sia chiaro, non parlo solo della difficoltà di un gioco (sebbene in effetti sia una causa frequente): un coriaceo boss di Dark Souls o un enigma avanzato di The Talos Principle, non sono le uniche possibilità. Per alcuni, anzi, sono l’ultimo dei problemi (eccomi!).
Quale altra esperienza ci potrebbe spingere in una situazione di questo tipo? Ecco a voi Virginia.
Virginia, Ciak, si gioca!
Virginia viene proiettato negli store digitali il 22 settembre 2016 ad opera di Variable State. Senza girarci molto attorno, Virginia fa parte di quei giochi che puntano tutto sulla narrazione e si preoccupano molto meno di proporre, controller alla mano, “cose da fare”. Virginia è un film muto in cui dovremo compiere piccole azioni atte a far proseguire la vicenda: alle volte dovremo camminare nell’ambiente per una manciata di secondi, altre dovremo solo guardarci attorno un paio di volte. In generale si dovrà interagire con il giusto oggetto per avanzare, ma sarà sempre davanti a noi, in bella vista. Virginia non pone difficoltà di alcun tipo al giocatore.
Vestendo i giovani panni di una neo-agente dell’FBI, Anne Tarver, dovremo indagare sulla scomparsa di un ragazzo in un paesino della Virginia, Kingdom, insieme all’esperta collega Maria Halperin. Muovendoci tra le indagini e suggestive visioni dal forte connotato metaforico, cercheremo di capirci qualcosa. Come ho già detto, Virginia è muto, non una parola verrà detta e tutto si baserà su occhiate, piccoli gesti e (pochissimi) testi scritti.
Virginia, un tipo di difficoltà
Prima di giungere al punto, mi trovo costretto a parlare brevemente di me per aiutare i lettori a contestualizzare meglio le mie parole. Io adoro i giochi narrativi: che siano Life is Strange, Gone Home o titoli della Naughty Dog, io amo le storie. Non ho nemmeno problemi con opere un poco (o anche più) complesse: tutta la trama di Kingdom Hearts è una storiella della buona notte per me, se invece vogliamo parlare di cinema un Mulholland Drive o un Inland Empire – L’impero della mente (del regista Lynch, che è un’esplicita fonte di ispirazione per Virginia) sono una gioia per il mio cervello.
Non che questo mi renda il più fico del vicinato, ma se dico che di Virginia non sono riuscito a capire tutto comprenderete che non è per mancanza di capacità o di impegno. Ho afferrato la storia base ma non sono del tutto sicuro di quanto ancora ci sia da scoprire. Non sono sicuro se mi sono realmente perso qualcosa di rilevante oppure se il gioco è meno complicato di quel che penso.
Virginia, serve più impegno?
E qui arriviamo al nocciolo della questione: dovrei provarci ancora? Ho giocato a Virginia per la prima volta alcune settimane fa e ho cliccato play una seconda volta in questi giorni, proprio per scrivere questo articolo. A questo secondo giro mi è piaciuto di più: mi sono goduto la veste grafica e le musiche con più tranquillità rispetto al primo tentativo (mancando la “foga” della blind run), ho scovato qualche collezionabile extra e ho ottenuto un altro paio di trofei (senza sapere esattamente come, a dirla tutta).
Eppure non è chiaramente sufficiente. Dovrei rigiocarlo una terza volta, con ancora più attenzione. Di certo mi sono perso una serie di “cose” (interazioni uniche, collezionabili e altro che non so) poiché mi mancano molti trofei (criptici anch’essi).
Ma un videogame si merita tutto questo impegno? Chiediamolo a The Binding of Isaac.
The binding of Isaac, il re dei roguelike
The Binding of Isaac viene scarabocchiato con lacrime rosso sangue da Edmund McMillen (già co-creatore di Super meat boy) il 28 settembre 2011, ottenendo un remake (sotto il nome di The Binding of Isaac Rebirth) nel novembre 2014 e un paio di espansioni negli anni successivi. Si tratta di un action rpg shooter con elementi rougelike (fondamentalmente: se muori, riinizi da capo e ogni partita viene generata casualmente in tutte le sue componenti).
Controllando un ragazzino con tanta immaginazione dovremo scappare da nostra madre che ci vuole uccidere. Muovendoci in un labirinto di stanze, dovremo abbattere mostruosità varie (da cacche felici a bambini demoniaci che sputano raggi laser) piangendo loro addosso (le lacrime sono i nostri proiettili), trovando potenziamenti che ci rendano più potenti e cercando di sopravvivere di boss in boss.
The Binding of Isaac tiene fede alla propria componente rougelike che porta con sé, tra le varie, una discreta difficoltà e un certo trial-and-error. Morire è la norma per il nostro bambino digitale e da ogni morte si impara qualcosa (in teoria, perlomeno).
Il gioco presenta un quantità di contenuti (soprattutto dopo la prima espansione) incredibilmente elevata che permette di rendere ogni partita veramente diversa l’una dall’altra. Con gli ovvi pro e contro: se alle volte ci ritroveremo con i peggiori potenziamenti e boss più terrificanti, altre volte rideremo come i più grandi malvagi dei film per le combo assurde e distruttive che riusciremo a creare.
The Binding of Isaac, un altro tipo di difficoltà
The Binding of Isaac è immaginabile come una serie di scogli da superare: il più grande, però, è proprio il primo. La totale mancanza di conoscenza nei confronti dei potenziamenti, dei segreti raggiungibili solo con l’oculato utilizzo di una bomba e la carenza di manualità ci porteranno facilmente alla frustrazione.
Io gioco da circa due anni e mezzo ad Isaac. È certamente il videogame che ho avviato più volte negli ultimi tempi. Probabilmente se la compete con le prime generazioni di Pokemon. All’inizio, però, non riuscivo a carburare. Era faticoso, spesso poco divertente e alla fine lo abbandonai senza troppe remore. Poi, spinto da uno YouTuber ho ritentato: con gli insegnamenti estrapolati dai suoi video sono riuscito a scalfire il primo scoglio. Eppure ancora non riuscivo a dire che The Binding of Isaac mi piacesse. Ho giocato per più di un anno (a intervalli, ovviamente, non in maniera costante) senza poter affermare di essere pienamente soddisfatto. Oggigiorno posso dirlo.
Eppure mi domando: chi diavolo me l’ha fatto fare?
Devo ripeterlo: chi diavolo me l’ha fatto fare?
Se con Virginia parliamo di un paio di ore di gioco al massimo, con The Binding of Isaac siamo attorno al centinaio. Di più, probabilmente. E una discreta parte di queste sono state spese nelle fasi iniziali. Quelle “brutte” (per me, sia chiaro).
Quindi mi domando: quanto mi devo impegnare in un videogioco? Non tanto perché è difficile (Virginia non lo è né come controlli, né come tempo richiesto), ma perché il videogame dovrebbe sempre lasciarti con qualcosa di gradevole: la decima morte contro il Re senza nome, in DS3, è piacevole (okay, forse un po’ di incazzatura c’era, ma comunque un’incazzatura piacevole). Molte partite di Isaac non lo sono state, però. Eppure ho tenuto duro. E alla fine sono stato ricompensato. Lo posso considerare un lieto fine? Un “e vissero felici e contenti”? Non sono io la matrigna, vero?
Il gioco vale sempre la candela? Cosa ne pensate? Vi capita di rimuginare sul fatto che tutto quello che avete speso per riuscire ad apprezzare un gioco forse non era così necessario? Che magari il gioco non se lo meritava? Diteci la vostra!
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