E siamo qui per il nostro consueto appuntamento settimanale. Mentre parte dello staff (io compreso) si destreggia tra gli stand della Milan Games Week, riscopriamo Red Dead Redemption
È il turno del secondo numero del format “Quel che mi piace di…”. Dopo aver parlato di Dark Souls 3, ritorniamo ancora una volta “a casa”, come è accaduto con Kingdom Hearts 2. Questa volta tocca a Red Dead Redemption. Il secondo capitolo è un argomento caldo in questi giorni e non ho potuto fare a meno di chiedermi: cosa mi è veramente piaciuto del gioco western di Rockstar?
Scopriamolo insieme.
Red Dead Redemption: un’epopea western
Red Dead Redemption cavalca verso il sole dal 21 maggio 2010 su PS3 e Xbox 360. Si seguono le vicende di John Marston, ex-fuorilegge che si ritrova costretto a lavorare per dei pezzi grossi del Bureau. Il suo obbiettivo è catturare un ex-compagno, che con la sua banda imperversa nei territori fittizi del New Austin e West Elizabeth. Il nostro viaggio ci porterà fino a Nuevo Paraiso, un ipotetico stato messicano.
Sul nostro cammino troveremo sparatorie tra i cactus, duelli allo scoccare del mezzogiorno, cavalli imbizzarriti e fuorilegge armati fino ai denti. In una classica struttura da open world/sandbox, ci faremo strada missione dopo missione.
Red Dead Redempion: le ovvie qualità
Red Dead Redemption è un videogame dalla qualità elevatissima e non serve che sia io a dirlo. La mia prova di poche ore fatta in questi giorni, dopo molti anni che non inserivo il disco nella console, me l’ha provato ancora una volta.
Il gioco è graficamente valido anche adesso, figuriamo all’epoca dell’uscita. Oggigiorno ho notato un forte effetto aliasing (ovvero, detto in maniera un po’ banale, la “seghettatura” dei bordi degli oggetti) e un discreto pop up di texture e poligoni. Difetti che ora sono tali solo per abitudine d’utilizzo di macchine ben più performanti. Lo stile però rimane quello di sempre e la realizzazione del Far West è incredibile.
Le attività proposte, dalla semplice cavalcata alla sparatoria tra gli steccati di una piccola cittadina polverosa, sono divertenti ancora oggi. Ammetto che non ne ero del tutto certo, ma il sistema di gioco regge benissimo anche dopo tutto questo tempo. Devo, a tal proposto, fare una confessione: io e i sandbox non andiamo d’accordo facilmente. È un genere che punta alla dispersione e al proporre tante tipologie di attività senza mai specializzarsi in alcuna. La conseguenza più frequente è che i singoli elementi non siano bel limati: sommandoli assieme si ottiene un prodotto valido, ma controllandoli uno a uno si possono notare dei difetti. Red Dead Redemption pone invece una cura incredibile in ogni singola componente di gioco.
A tutto questo si aggiunge la narrazione che accompagna il giocatore per moltissime ore. Non solo la storia principale, ma anche i filoni narrativi più secondari risultano molto interessanti da completare, con un cast complessivo di personaggi che sfiora la perfezione e ci spinge a domandarci come faccia Rockstar ad aver assemblato un team di scrittori così abili.
Quel che mi piace di Red Dead Redemption
Tutti questi singoli elementi, però, non sono la vera risposta. Il punto è il modo in cui essi si fondono per creare un’esperienza smisuratamente completa e immersiva. Ancora adesso riesco a ricordare come il gioco mi trascinasse con sé ad ogni singolo avvio. Sono molti i videogame che ho adorato, ma non tutti mi hanno fatto dimenticare di trovarmi in una stanza con un controller in mano e una televisione a qualche metro di distanza. È il classico concetto di “superiore alla somma delle singole parti”. È un insieme di dettagli che tendiamo a non notare se non li stiamo cercando.
Sentire i coyote ringhiare nelle tue vicinanze mentre catturano un coniglio, sebbene la telecamera non li abbia minimamente inquadrati e tu non ti fossi accorto della loro presenza. Vedere il protagonista che automaticamente inclina il cappello per fare un saluto ad un passante che tu non avevi considerato interessante. Entrare in un saloon e udire nel mezzo del caos i lamenti di un ubriaco respinto da una donna.
Ma non solo dettagli grafici e sonori. La bellezza di Red Dead Redemption io la ritrovo soprattutto in certi dettagli di gioco (che qualcuno nella redazione definirebbe “dettagli di pucciosità”). Un paio di esempi. Nel momento in cui il gioco ci fa fare una transizione da cut-scene al in-game, se la scena rappresenta i personaggi in movimento, il nostro protagonista starà già camminando nella giusta direzione. Questo copre il tempo di reazione necessario a cominciare a muovere la levetta ed elimina qualsiasi pausa che vede il personaggio bloccato sul posto quando invece dovrebbe star correndo per salvarsi la vita.
O ancora, il fatto che la stanza in cui possiamo dormire (e salvare) ad Armadillo (la prima cittadina di gioco, quindi la più frequentata) ha un’uscita su un balcone che ha la balaustra rotta così che possiamo buttarci dal primo piano direttamente in strada, senza dover percorrere l’interno dell’edificio e poter iniziare a giocare subito soprattutto perché cadiamo a un passo dal punto in cui è legato il nostro cavallo.
Forse molti considerano queste cose come minuzie secondarie, ma non mi troverebbero minimamente d’accordo. Questa cura nei particolari va a creare un’esperienza più fluida e immersiva e rende Red Dead Redemption uno dei giochi migliori di sempre.
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