Bentornati al nostro appuntamento settimanale con In the mood for East, rubrica interamente dedicata al cinema orientale. Oggi vi parliamo di Help Me Eros di Lee Kang-sheng
Eccoci arrivati ad un nuovo appuntamento con In the mood for East e con i suoi speciali dedicati al cinema orientale. Oggi torniamo a Taiwan per la seconda volta, dopo aver già compiuto un piccolo viaggio in questa isola-stato con Tsai Ming-liang. E del regista e sceneggiatore taiwanese parleremo in un certo senso anche oggi, dato il suo stretto legame con l’autore di oggi, Lee Kang-sheng.
Prima di misurarsi dietro la macchina da presa, Lee Kang-sheng stringe infatti un sodalizio artistico con Tsai Ming-liang, diventando il suo attore feticcio e comparendo in tutti i suoi film (ma proprio tutti!) nelle vesti di protagonista. Nel 2003 decide di intraprendere la carriera di regista, con The Missing, senza dimenticare la lezione appresa dal suo grande maestro. Lee Kang-sheng nei suoi lungometraggi riprende infatti tutti gli stilemi tipici del più noto regista, nonché le tematiche ricorrenti e quel gusto malinconico e pessimista che contraddistingue i suoi film – per sua stessa ammissione.
Il film di cui parleremo oggi è Help Me Eros, sua seconda opera, nonché quella che ad oggi ha ottenuto più successo. Help Me Eros è stato presentato alla 64esima edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, provocando non poco sgomento nel pubblico. Ovviamente, anche qui troviamo lo zampino di Tsai Ming-liang, che partecipa in veste di produttore esecutivo e scenografo. Ma non solo, e ora vedremo perché.
Trama e trailer di Help Me Eros
Ah Jie (interpretato dallo stesso Lee Kang-sheng) sta attraversando un periodo nero. La relazione con la sua fidanzata è appena terminata, ha perso il lavoro e il suo stile di vita abbiente subisce una brusca interruzione a causa di un crollo di borsa che gli fa perdere tutti i risparmi. All’uomo non rimane che consolarsi con la marijuana, che coltiva nel suo lussuoso appartamento, e cercare conforto in un “telefono amico” dedicato agli aspiranti suicidi.
All’altro capo del telefono c’è Chyi (Jane Liao), una corpulenta ragazza trascurata dal marito, di cui Ah Jie si innamora. L’incontro tra loro è impossibile, così lui comincerà a idealizzarla in ogni modo. In particolare è la ragazza che lavora nel betel sotto casa sua, Shin (Ivy Yin), a ricevere le sue attenzioni. I due intraprendono una sorta di relazione fatta di sesso e droga, ma questo non salverà Ah Jie dai suoi propositi di suicidio.
Un filo che collega maestro e allievo
Come già accennato, è impossibile non notare quanto Lee Kang-sheng abbia “rubato” dal suo maestro Tsai Ming-liang. A volte viene quasi il dubbio che dietro la camera da presa ci sia il secondo. Innanzitutto per una questione stilistica. L’attore e neo-regista mantiene la camera perlopiù fissa (anche se notiamo una maggiore propensione al movimento) e utilizza inquadrature dalle angolazioni inusuali, con una tendenza a privilegiare la figura intera piuttosto che le emozioni che traspaiono dai volti. Perché questo non è un cinema fatto di volti, ma di dettagli, di sensazioni.
La seconda questione che accomuna i due autori è quella tematica. In entrambe le poetiche si stagliano con violenza la solitudine e la ricerca dell’amore. Tutti i personaggi principali sono accomunati da un’incolmabile condizione di solitudine. Ah Jie ha appena perso tutto: a livello umano (la sua fidanzata), e a livello materiale (soldi, casa, lavoro). Ciò che lo teneva connesso al mondo non esiste più, e questo lo porta a cercare disperatamente un supporto tramite il telefono o nel contatto fisico con delle sconosciute. Chyi è la voce nella quale Ah Jie trova un rifugio, ma la sua vita è tutt’altro che perfetta. Intrappolata in un corpo nel quale non si riconosce più e in una relazione con un uomo che non la desidera, non le resta altro che rifugiarsi nel cibo. Shin, per tirare avanti, deve mercificare e mostrare il suo corpo, lasciandolo alla mercé degli uomini di passaggio, a volte lasciandosi coinvolgere troppo dai suoi clienti.
Un grido d’aiuto, Help Me Eros!
Neanche a dirlo, l’habitat naturale per queste anime solitarie è la città immersa nella notte, con le sue luci al neon, i suoi rumori, i locali, la gente di passaggio. L’oscurità metropolitana che inghiotte vite sole e disperate, destinate inevitabilmente all’infelicità , denominatore comune dell’essere umano. Ne inghiotte i corpi, qualunque forme essi abbiano: perfetti e meno perfetti, messi in mostra o celati alla vista, corpi intrisi di nulla.
Elementi fondamentali in questa rappresentazione dell’umanità sono eros e cibo, come accadeva ne Il gusto dell’anguria (2005), ancora una volta Tsai Ming-liang. Ah Jie e Chyi cercano sollievo nel piacere lussureggiante del sesso (freddo, acrobatico) e del cibo (caldo, quasi vivo), ma quel piccolo momento consolatorio è quanto di più effimero ci possa essere. Perché tutto alla fine è solo apparenza. I personaggi cercano conforto l’uno nel corpo dell’altro, nello strappo alla regola, ma non possono trovarlo. Le loro insoddisfazioni si cercano, si uniscono, ma si respingono inevitabilmente. Ognuno di loro lancia il proprio grido d’aiuto, che non verrà mai ascoltato, perché dopotutto siamo sempre e comunque soli e incapaci di stare al mondo.
Conclusioni
Lee Kang-sheng si lascia ispirare da esperienze di vita vissuta per rappresentare l’incomunicabilità dei nostri tempi. Un tema certamente già visto altrove, ma che qua mantiene comunque una sua dignità , mostrando come il regista abbia qualcosa da dire, anche e soprattutto grazie alle proprie emozioni messe al servizio del cinema. Allo stesso tempo è forte il debito con Tsai Ming-liang, soprattutto sul piano estetico (e che piano estetico!), ma il giovane regista riesce a non sfigurare nemmeno di fronte al suo esperto maestro. Con Help Me Eros si dedica infatti non solo un attento sguardo alla messa in scena, ma anche un profondo sguardo alla propria anima.
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