Questo articolo inizia con delle scuse. Mi scuso poiché mi ritrovo ad introdurre un argomento in modo simile ad un altro articolo di questa rubrica. Penso però possiate perdonarmi. Oggi vorrei trattare l’argomento del game design e, più nello specifico, del suo rapporto con il giocatore: smaliziato e non. The Last Guardian ci parlerà di noi
Mi capita spesso di pensare a quelle persone che non giocano ai videogames. Mi piace cercare di immaginare quali sarebbero i principali problemi in cui incorrerebbero tali individui. Molti, dovendo rispondere, penserebbero alla pura e semplice difficoltà meccanica di avere un controller tra le mani. Non sapere dove si trovano i tasti o comunque non avere quella manualità e rapidità che un giocatore, con almeno alcuni anni sulle spalle, si ritrova a possedere.
A mio parere, però, la difficoltà principale sarebbe più mentale che fisica. I videogames portano con sé una serie di regole implicite che tutti noi conosciamo e diamo talmente per scontate che nemmeno ce ne rendiamo conto. Per esempio: una leva o un pulsante attireranno la nostra attenzione con facilità. Siamo in grado di distinguere una porta interagibile da una “finta” al primo sguardo. Se vediamo una cascata, andremo a controllare se c’è un segreto nascosto dietro. Più in generale, ci aspettiamo di trovare certi elementi e di poterci interagire in un certo modo. Siamo già pronti a interpretare un codice che per molti risulterebbe oscuro, ma che per noi è come una seconda lingua.
Tutto questo ragionamento è scaturito da un singolo attimo di un gioco: The Last Guardian.
The Last Guardian: l’insperato viaggio
The Last Guardian si arrampica verso gli store il 6 dicembre 2016 come esclusiva PlayStation 4. Terza opera di Fumito Ueda, dopo Ico e Shadow of the Colossus, The Last Guardian ha subito uno sviluppo estremamente travagliato. Previsto inizialmente per PS3, ha visto rinvii e cambi di team: per un lungo periodo è stato più vicino a un vaporware che a un vero gioco.
Nei panni di un ragazzino, ci risveglieremo in una grotta a fianco di una grande bestia di nome Trico, famigerata per essere una mangiauomini. Di fronte a noi un’avventura che richiederà una collaborazione tanto improbabile quanto difficile da gestire. Trico è potente, distruttivo e facile all’ira, ma al tempo stesso sembra un cucciolo indifeso bisognoso della nostra guida. Tutto il gioco ruota attorno a questo rapporto in cui micro e macro si sorreggono a vicenda.
The Last Guardian: la meccanica delle dimensioni
Quello che ci ritroveremo a fare all’interno del gioco, è cercare di proseguire attraverso una serie di ambienti più o meno grandi. In quanto videogame, The Last Guardian poggia su una serie di meccaniche, di regole di game design. Un esempio semplice: Trico è grosso, noi siamo piccoli, quindi capiterà di imbatterci in zone strette in cui il nostro amico non potrà seguirci. Noi dovremo trovare un punto in cui lui possa passare, spesso saltando, e dovremo attirare la sua attenzione chiamandolo a voce. Un caso opposto è quando saremo noi a dover sfruttare Trico per superare altezze o baratri totalmente fuori dalla nostra portata: basta arrampicarsi sull’animale e lasciarlo saltare.
The Last Guardian: la meccanica dei barili
Un’altra meccanica è legata a dei barili, ovvero il cibo preferito di questa bestia. Dovremo sfruttarli come esca per spingerlo a saltare o ad avanzare. Alle volte, invece, i barili sono solo dei collezionabili mimetizzati nel gioco. Saltarne uno mina solo il completismo. Io, in quanto giocatore smaliziato, so che quel barile che vedo là in fondo è solo un extra e capisco che quel percorso è secondario e quindi evitabile se non mi importa di completare il gioco al 100%. Perciò ignoro quella zona. Impongo sul gioco un ragionamento esterno che deriva dalla mia esperienza.
C’è un ulteriore dettaglio riguardo i barili. Una cosa forse piccola, forse grande: non saprei dirlo poiché al momento della stesura dell’articolo non sono andato oltre una o due ore di gioco. Trico, quando si ritrova a mangiare un barile, tenta spesso di afferrarlo con una zampa anteriore. Per chi non sapesse come è fatto l’animale e l’oggetto, vi dico subito che la zampa è in grado di afferrare il barile: Trico però non ci riesce, per mancanza di coordinazione e precisione.
Questa è un piccolo (o grande) dettaglio che ho notato. Mi ha permesso di capire che Trico, potenzialmente, è in grado di afferrare cose. La bellezza di tutto ciò risiede nel fatto che viene costruito attraverso un’animazione che non “serve a nulla”: Trico fa questa cosa, cercare di afferrare il barile, ma la meccanica non cambia. Barile -> Trico -> esca/collezionabile. Che Trico cerchi di afferrarlo non cambia questa sequenza. Inoltre, Trico comprende il concetto di “afferrare”. Questo mi sta dicendo “l’inutile animazione”.
The Last Guardian: la (non) meccanica
Ad un certo punto, sono giunto in una zona non dissimile da altre. Cerco di descrivervela. Arrivando da una grotta naturale scavata nel lato di una montagna, ci si ritrova in uno spiazzo a cielo aperto, rettangolare, che dà direttamente in un baratro. A destra, c’è un muro in rovina ma comunque solido: abbastanza alto, ma che posso superare grazie ad un’apertura ad arco che forse un tempo ospitava un portone. Oltre l’arco però non c’è terreno, forse crollato nel baratro: è rimasto solo un piccolo spazio lungo la parete rocciosa. Il nostro protagonista è in grado di correre lungo questo percorso che arriva fino al punto in cui la parete rocciosa fa angolo e prosegue oltre. Lungo questo percorso però, non c’è alcun appiglio o alcun elemento che mi permetta di continuare. Mentre io mi guardavo in giro, Trico ha saltato sopra il muro con l’arco da cui ero passato e si è appollaiato lì. Oltre non poteva chiaramente andare.
In quel momento è scattato il giocatore smaliziato che c’è in me, che ragiona prima di tutto secondo le regole di game design classiche e cerca di indurre piuttosto che dedurre. Ovvero: non ho cercato di guardare la situazione specifica e capire quale fosse la soluzione generale, ma sono partito dai casi più universali di game design e ho cercato di capire quale si adattasse a quella situazione.
Ancora più nello specifico, ho pensato: se Trico è saltato lì e se ne sta fermo, un motivo c’è. In questi casi le soluzioni sono due: o il gioco mi sta dicendo che non può proseguire, che è bloccato e quindi devo trovare una soluzione, oppure quella posizione di Trico è solo il punto di partenza per un altro movimento. Trico non è lì a caso. Ci sono delle regole di game design.
Ovviamente stiamo parlando di un pensiero quasi inconscio e che qui ho strutturato per amor di comprensione. Non ho realmente pensato queste parole, ma d’abitudine ero pronto a queste eventualità.
In ogni caso, io stavo vivendo quella situazione con l’occhio del giocatore smaliziato. Non riuscivo a capire come proseguire e cercavo di chiamare Trico per vedere se poteva saltare ancora. A vista avrei detto di no, ma sapevo benissimo che, anche facendolo a caso, se avessi attivato il richiamo nel punto giusto lui mi avrebbe seguito. Magari si sarebbe arrampicato lungo la parete verticale. Testavo il game design, incurante di trovare la soluzione. Potevo basarmi sulle mie esperienza pregresse.
Ciò che successe in quel singolo attimo
Poi Trico fece il suo verso, mi guardò, ancora appollaiato sul muro, e con la zampa mi disse “afferra”. E io capii. Non avevo visto l’uscita verso l’alto, verso la cima della parete rocciosa. Trico mi stava dicendo di arrampicarmi su di lui. Mi stava dicendo che potevo afferrarlo come lui cercava di afferrare i barili.
Ne sono rimasto stupito. Incredibilmente stupito. È stato un attimo così fuori dal game design più regolare che mi sono veramente sentito il ragazzino di fronte alla grande bestia mangiauomini. Ho visto quell’essere, che già cominciavo a definire compagno, cercare di comunicare con me. L’aveva fatto tramite le regole di game design, ma io non l’avevo capito prima. The Last Guardian era riuscito a superare i miei blocchi da giocatore smaliziato.
Non è veramente possibile andare oltre il game design, l’abbiamo già detto, ma alle volte possiamo anche smettere di credere così tanto in noi stessi e nelle nostre capacità pregresse e possiamo credere un po’ nel gioco. Credere che non sia qualcosa di ovvio e scontato, qualcosa da risolvere dall’esterno. Forse possiamo anche smettere di essere giocatori smaliziati e provare ancora un volta cosa significa essere giovani e ingenui.
E voi? Siete giocatori smaliziati? Quando un problema vi si para di fronte, date per scontato di conoscere già la situazione e che il gioco non potrà di certo stupirvi? Ditecelo nei commenti!
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