Getting over it è il nuovo gioco di Bennett Foddy: è un platform atipico, difficile fino all’esagerazione, che sta facendo molto parlare di sé, ma cosa c’è dietro?
Lo chiamerò “Bubba”, in onore all’omonimo personaggio del primissimo Mad Max. “Bubba” è un mio caro amico, lo conosco da molto tempo. Vi chiedo scusa se sfrutto queste righe per rivolgermi direttamente a lui.
“Bubba”, amico, oggi ti ho odiato. C’è stata una mezz’ora buona in cui potevo solo maledire il tuo (vero) nome.
Perché, vi state chiedendo? Perché è stato lui a farmi conoscere Getting over it, il nuovo gioco di Bennett Foddy (QWOP, CLOP).
Ti ho odiato, “Bubba”, perché era facile odiarti. Era la soluzione più comoda. In quel momento, in verità, odiavo me stesso, odiavo Getting over it, odiavo Foddy, odiavo tutto e tutti; ma era troppo da sopportare. Quindi ho solo odiato te, fino a quando l’odio non è scemato.
Getting over it with Bennett Foddy: l’idea
È meglio però fare un passo indietro e cercare di capire di cosa stiamo parlando. Getting over it è il remake di Sexy Hiking, un B-game di un misconosciuto autore della Repubblica Ceca. Se dovessimo categorizzare e semplificare agli estremi, dovremmo affermare che Getting over it è un platform atipico. Interpretiamo un uomo dentro un pentolone che impugna un martello con un lungo manico. Muovendo il mouse, governeremo la testa del martello che andrà usata come perno per avanzare. Il nostro scopo è salire una montagna composta da oggetti causali, impilati in maniera irrealistica. Niente storia, niente missioni, level up, potenziamenti, filmati, nulla. Solo i commenti di Foddy stesso, che ci accompagna in questo viaggio.
Senza girarci troppo attorno, il gioco è dannatamente difficile. C’è poco da dire. L’idea fondamentale a livello ludico è che nulla può essere guadagnato con facilità e, anche una volta superato un ostacolo, cadere è sempre possibile, costringendoci a ripartire da capo ancora e ancora.
Il terreno è sempre inclinato, scivoloso. Un salto errato o un movimento inconsulto del mouse (e quindi del martello) ci faranno perdere molti dei progressi fatti fino a quel momento; ma non disperiamo: come ci dice il gioco stesso la vera sconfitta non è cadere, ma non rialzarsi, giusto?
Getting over it with Bennett Foddy: la realizzazione
Togliamoci subito alcuni dubbi. Da dove deriva la difficoltà?
È presto detto: abilità manuale e capacità di lettura dell’ambiente. Ogni ostacolo richiede di eseguire dei movimenti estremamente precisi, in un ordine preciso e con un ritmo preciso. Inoltre, è necessario capire quali siano questi movimenti precisi. Bisogna trovare il punto migliore in cui posizionare il martello, la forza esatta da imprimere e l’appiglio successivo su cui aggrapparsi.
Notiamo quindi che la difficoltà non deriva da un gioco impossibile da controllare. Se non riuscirete a fare quel salto, a fermarvi nel giusto punto o ad eseguire la corretta rotazione del mouse sarà per colpa vostra, non del gioco. Getting over it è uno dei più magistrali esempi di level design ben riuscito. È a dir poco scioccante come ogni singolo millimetro di gioco sia esattamente come dovrebbe essere. Ogni piattaforma, ogni appiglio, ogni ostacolo è lì per un motivo preciso. Dopo anche solo un’oretta di gioco, comincerete a “leggere” il level design e capirete lo scopo di ogni singolo elemento a schermo: ferirvi.
Ho creato questo gioco per uno specifico tipo di persone. Per far loro del male. Questo è quello che ci dice Foddy, tramite la descrizione del gioco sullo store. Ora però mi domando: Foddy voleva veramente ferirmi? O sono solo una vittima collaterale, finita in mezzo a una guerra che non gli apparteneva?
La mia esperienza
Ho iniziato a giocare a Getting over it avendo un’idea generica di quel che mi aspettava. L’ho fatto in parte per curiosità, ma anche soprattutto perché sapevo che sarebbe stato un ottimo spunto per un articolo: nel bene o nel male, ho avuto ragione. Vediamo com’è andata.
Io sono scarso nel controllo del mouse, lo dico subito. Sono un fiero giocatore console, da levette ravvicinate e praticamente nulli movimenti del polso. Ho faticato ad apprendere anche solo le basi del movimento del gioco di Foddy. Metro dopo metro ho affinato la mia tecnica, ma sono caduto molto spesso e più volte sono ripartito da capo.
All’inizio ho trovato divertente Getting over it. Sì, era dannatamente complesso, in maniera assurda, ma era quello il senso. Il gioco voleva farmi cadere e, inoltre, mi irrideva con citazioni e canzoni che facevano riferimento al rialzarsi, al credere nei propri obbiettivi o al puntare in alto. Era veramente buffo e mi faceva ridere.
Poi sono rimasto incastrato al camino del diavolo, nome dato dalla community ad una specifica area. Lì si capisce veramente se si è in grado di apprendere le meccaniche di gioco e se si ha la capacità di avanzare. Ci ho messo molto, ma ce l’ho fatta. Ho proseguito, cadendo alla base della montagna fin troppe volte. Il gioco aveva smesso di farmi ridere.
A quel punto volevo capire cosa ci fosse sotto. Ad ogni piccola scalata, però, il fastidio aumentava. Il vero senso del gioco si stava manifestando e io cominciavo a non sopportarlo più. Stavo proprio odiando “Bubba”, il mio caro amico.
Sono arrivato all’arancia (chi ci ha giocato sa di cosa parlo) e mi sono fermato. Ovviamente al primo tentativo sono caduto e, in tutta sincerità, non ritenevo salutare provarci ancora. Non trovavo un senso, un motivo per farlo.
Scemata la rabbia, però, era rimasta una certa curiosità. Ho recuperato un video di una scalata completa, per avere un’idea di quanto presto mi fossi fermato. Inoltre, per poter scrivere un articolo che non fosse solo un’accozzaglia di giustificazioni per il mio rage quit, dovevo comprendere il messaggio di Foddy.
Il vero messaggio di Bennett Foddy
Come vi ho detto, infatti, l’autore ci accompagna con regolari commenti. Man mano che saliamo verso l’alto ci viene spiegato da dove deriva il gioco (Sexy Hiking, per l’appunto) e perché Foddy l’abbia voluto creare.
Foddy ci dirà subito che la maggior parte degli ostacoli nei videogame moderni sono fasulli. Si può essere perfettamente confidenti nelle proprio possibilità, grazie ai level up, a nuovi equipaggiamenti o anche solo al puro tempo speso. In passato, invece, non era così. I videogame pretendevano veramente molto dal giocatore, lo portavano a fallire, ancora e ancora.
Foddy ritiene che il problema non risiede negli errori del designer, ma nell’incapacità del giocatore che dovrebbe solo contare sulle proprie forze. La frustrazione che si viene a provare è parte del processo che rende questa montagna immaginaria qualcosa di reale.
Nell’era moderna, afferma Foddy, tutto è spazzatura. Non nel senso che le cose abbiano poco valore o siano male realizzate, ma nel senso che tutto diviene spazzatura. Nel mondo della tecnologia, inoltre, questo avviene a una velocità molto alta. Nell’internet tutto si accumula e diventa vecchio all’istante, in un continuo ciclo di refresh, di novità che rimangono tali per pochi secondi. Tutto quindi diviene spazzatura e si accumula, fino al punto in cui c’è molta più spazzatura che elementi nuovi.
Da questa spazzatura è possibile creare una cultura, ma solo una cultura di tipo B. B-movie, B-games, B-philosophy. Una cultura estremamente disponibile ma che, per Foddy, non dovrebbe essere di conseguenza estremamente accessibile.
Foddy vuole quindi creare una cultura non accessibile. Una cultura che si basi proprio sulla frustrazione. Ce lo fa capire perfettamente con la suddetta arancia. Per Foddy i videogame odierni (ma in generale la cultura) sono come un’arancia. La buccia esterna è amara, ma ti permette di raggiungere il dolce interno. A lui questo non sta bene. Vuole solo la buccia. La frustrazione, ci dice, è ormai sottovalutata.
Foddy sta creando un gioco per sé e per tutti quelli come lui. Coloro che non sono in cerca di una vetta, ma solo di una salita rude, ingiusta, aggressiva. Ti ringrazierà per aver resistito, ma saprà benissimo che il vero scopo di tutta l’esperienza è il gusto per la sconfitta che diventa più intenso ad ogni tentativo e a ogni ritorno.
“Abbiamo lo stesso gusto, tu ed io. Non è l’ambizione. È il suo opposto. Un’ostinata missione per gustare la sconfitta. Ti sentirai male se vincerai […]” Questo ci dice Foddy, con la voce spezzata da una intensa e amara sofferenza.
“Tornerai qui, ancora e ancora […], fino a quando sarai asceso o fino a quando sarai soddisfatto.”
Poiché non è possibile ottenere entrambe le cose. Se salirai, significherà che sei come Foddy. Insoddisfatto e costantemente alla ricerca di nuova frustrazione. Io, invece, mi sono fermato. Non ho lo stesso gusto di Foddy ed è stato facile per me essere soddisfatto dell’opera: ho solo provato odio e non frustrazione. Foddy ci dirà che andremo avanti solo se non odieremo il gioco e se saremo in grado di vivere la frustrazione.
Ho creato questo gioco per uno specifico tipo di persone. Per far loro del male. È così che l’autore ci presenta Getting over it. Tutti noi pensiamo che ci sia una profonda cattiverai in tutto questo. Pensiamo che l’autore voglia aggredire e ferire una certa categoria di persone che odia. Pensiamo che voglia far del male a una tipologia di giocatori che agiscono o pensano in un modo che lui ritiene scorretto.
Quando però comprendiamo la vera natura di Getting over it, arriviamo alla conclusione che il suo è un messaggio d’amore. Lui vuole ferirci, perché è quello che noi più desideriamo. Lui lo fa per noi.
“Dedico questo gioco a te, colui che è arrivato così lontano. Te lo dono con tutto il mio amore.” Bennett Foddy, 2017.
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