The Legend of Zelda è un vero e proprio classico della storia videoludica: sono passati trent’anni dal suo arrivo in occidente e il mondo dei videogame è molto cambiato. Un giocatore moderno come vivrebbe l’opera di Nintendo del 1987? Scopriamolo!
Nuovo anno, nuova sotto-rubrica. Sì, il 2018 è iniziato già da un po’, ma non facciamo i precisini. Ciò che conta è di cosa andremo a parlare oggi e, con lo stesso format, anche in futuro. La risposta? Vecchi classici. Le regole sono molto semplici: prenderò opere entrate nell’immaginario comune che io non ho mai giocato e le proverò (niente run complete, quindi), dopo di che ne parlerò con occhio critico, ma sempre leggermente soggettivo e, cosa più importante, moderno. Poiché è questo il punto: un giocatore d’oggi, abituato ai videogame d’oggi, riuscirebbe a vivere ai classici di ieri?
Scopriamolo!
The Legend of Zelda (1987): dove tutto ebbe inizio
Partiamo però con delle mezze scuse. In verità, questa non è la mia prima volta con The Legend of Zelda: prima che tiriate fuori i forconi per la mia contravvenzione alle suddette regole, però, fatemi precisare. Un paio di anni fa, colto da un effimero desiderio, ho avviato il gioco e ho vissuto due o tre schermate, abbandonandolo all’istante. Non avevo motivi reali per investirci del tempo e il suo essere così “vecchio” era un reale limite. In parte, quindi, la risposta si trova già in qui: non voglio però che un intero articolo si basi sulla svogliatezza. Vediamo di impegnarci un poco e di tirarne fuori qualcosa.
Iniziamo con due parole veloci sulla grafica. L’opera è del 1987 (anno della release occidentale), su NES. È ovvio che l’impatto tecnico non è propriamente dei migliori, dopo trent’anni. Personalmente non sono un fan dello stile retrò, nei videogame moderni. Amo la pixel art (Fez, per capirci), ma il ritorno nostalgico alle vecchie grafiche non ha mai fatto per me (Shovel Knight, per esempio). The Legend of Zelda, nello specifico, non colpisce in maniera particolare per stile, oggigiorno. È difficile per un giocatore giovane, cresciuto ben lontano da questi livelli tecnici, potersi impressionare facilmente.
The Legend of Zelda (1987): it’s dangerous to go alone!
Giochiamo, però. Al primo avvio, veniamo informati del background narrativo con un semplice testo a scorrimento. Ganon, la Triforce in otto pezzi, la principessa Zelda (ah, ma quindi noi non ci chiamiamo Zel… okay, scherzavo). Personalmente apprezzo quando la narrazione ricopre un ruolo fondamentale nell’opera e diventa, in parte, ciò che ci spinge ad avanzare.
The Legend of Zelda è figlio di un’epoca in cui il gioco non vuole perdersi troppo in chiacchiere e ti butta in mezzo all’azione, senza tanti fronzoli. Credo che il giocatore moderno, al pari dei propri “antenati” (non me ne vogliate, è un vezzo stilistico), si faccia molte domande nel ritrovarsi in un mondo che non si spiega da sé in automatico. La differenza è che il giocatore moderno si aspetta di ricevere risposte chiare e dirette e potrebbe storcere il naso di fronte a elementi (apparentemente) casuali.
The Legend of Zelda (1987): take this
Ci ritroviamo quindi nella prima schermata: possiamo vedere una grotta in alto a sinistra. Piccola parentesi, level design da maestri: il giocatore è ovviamente attirato da quella grotta e, una volta entrato, viene ricompensato con la prima arma del gioco. Un vero e proprio imprinting ludico che ti spingerà a desiderare di entrare in ogni grotta che vedrai, ben sapendo che otterrai nuovamente qualcosa di utile.
Abbiamo quindi vissuto, in prima persona, il celeberrimo “It’s dangerous to go alone, take this.” Con la nostra spada di legno che spara raggi magici di qualche tipo (ma solo se abbiamo la salute al massimo), andiamo all’avventura. Qui il giocatore moderno si scontra con tanti elementi: la bidimensionalità, le quattro direzioni di movimento, la lentezza complessiva del sistema di combattimento. Siamo abituati a strutture di gameplay più elaborate e più accessibili (che non significa più semplici) e, fino a quando non si ottengono nuove armi, il tutto tende a stancare facilmente.
The Legend of Zelda (1987): il lieto fine?
Finora sembrerebbe proprio che il videogiocatore moderno non abbia molto di cui gioire, con The Legend of Zelda. Prima di tutto, specifichiamo (anche se penso sia ovvio) che non si sta parlando della singola persona. Sono sicurissimo che ci siano fior fiore di giovani videogiocatori che vivono giocando solo a The Legend of Zelda e a altri classici degli stessi anni, con grande godimento ludico e fisico. Di sicuro. Il nostro discorso, però, è generico, valido sui grandi numeri, tipo la Psicostoria di Asimov. Tendenzialmente, il videogiocatore moderno sarà estraniato da molti elementi di The Legend of Zelda.
C’è un elemento, però, che ritengo possa ancora oggi dare molto. Il senso di scoperta ed esplorazione che pervade l’intera opera è il vero nucleo del videogame. Veniamo buttati in un piccolo (per gli standard moderni) mondo che nasconde mostri, potenziamenti, dungeon, segreti. Sebbene la mancanza di accessibilità non mi convinca affatto (come lo scopri che i dungeon nascondono passaggi segreti apribili da bombe? Oltre ad aver giocato per tre anni a The binding of Isaac, intendo), devo dire che ritrovarsi a creare una mappa mentale delle aree, dei nemici e delle strade per raggiungere un dungeon o una grotta è divertente.
Al tempo stesso, però, l’opera nel complesso non è invecchiata benissimo e il giocatore moderno difficilmente potrà trovare motivi per buttarsi in un retrogaming che non gli è proprio per pure questioni anagrafiche.
Sono convinto che il passato debba rimanere nel passato e nei ricordi. Non c’è nulla di male se un’opera diventa vecchia e non può più concedere le stesse sensazioni a un pubblico moderno. Qualcosa da scoprire e da imparare c’è sempre, ma deve sempre essere utile per poter giungere a qualcosa di nuovo e adatto all’epoca attuale.
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