Bentornati al nostro appuntamento settimanale con In the mood for East, rubrica interamente dedicata al cinema orientale. Oggi vi parliamo di Last life in the universe di Pen-Ek Ratanaruang
Come ogni lunedì, eccoci arrivati alla rubrica tutta dedicata al cinema asiatico. Amici cinefili, bentornati su In the mood for East!
Se avete seguito gli appuntamenti precedenti, siete pronti a fare un ulteriore salto geografico e spostarvi all’interno di un universo cinematografico ancora meno conosciuto qui da noi in patria. Approdiamo in Thailandia, paese che a livello europeo è conosciuto perlopiù per il grande successo ai festival di Apichatpong Weerasethakul (Tropical malady, Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti, vincitore della Palma d’Oro a Cannes nel 2010). E sì, nel caso ve lo stiate chiedendo, tutti i registi thailandesi hanno dei nomi che sembrano degli scioglilingua! Ma mentre i loro nomi possono essere alquanto difficili da ricordare, siamo sicuri che la stessa cosa non valga per alcuni dei loro film. Primo fra tutti, il folgorante Last life in the universe, pellicola del 2003 di Pen-Ek Ratanaruang.
Il suo amore per il cinema esplode a New York, ma sarà in patria che inizierà a lavorare dietro la macchina da presa. Il regista inizia a farsi conoscere a livello internazionale sin dal suo esordio nel 1997, con il delizioso Fun Bar Karaoke, primo film thailandese ad essere selezionato per essere presentato al Festival internazionale del cinema di Berlino.
Ma parliamo finalmente di Last life in the universe, film con cui Ratanaruang raggiunge sicuramente l’apice della sua poetica.
Trama e trailer | Last life in the universe
Kenji (il bravissimo Tadanobu Asano, giustamente premiato come Miglior attore nella sezione Controcorrente alla 60esima edizione della Mostra del cinema di Venezia) è un bibliotecario giapponese impiantato a Bangkok. L’uomo soffre di disturbi ossessivo-compulsivi e ha una strana fissazione, quella del suicidio. Sfortunatamente, i suoi tentativi di togliersi la vita sono continuamente interrotti da campanelli, sveglie, rumori striduli, apparizioni inaspettate. La sua vita scorre solitaria, tra lavoro, libri e pulizie maniacali.
La monotonia della sua esistenza si spezza improvvisamente, innanzitutto con l’arrivo del fratello, membro della yakuza in fuga dal Giappone, che irrompe in casa sua invadendone lo spazio immacolato. E poi c’è l’incontro con Nid (Laila Boonyasak), la quale però viene investita proprio davanti ai suoi occhi, mentre lei cercava di impedirgli di buttarsi da un ponte. La morte di Nid – ma non solo la sua – porterà Kenji a rifugiarsi a casa della sorella di quest’ultima, Noi (Sinitta Boonyasak). La morte e la solitudine porteranno i loro destini ad intrecciarsi, inevitabilmente.
L’ultima lucertola | Last life in the universe
La lucertola si sveglia e scopre di essere rimasta l’unica lucertola viva. La sua famiglia e i suoi amici non ci sono più. Quelli che non le piacevano, e quelli che la prendevano in giro a scuola, anche loro andati. La lucertola è tutta sola. Ha perso la sua famiglia e i suoi amici. Così come i suoi nemici. “È meglio stare coi propri nemici che stare da soli!” Questo è quello che pensava. Osservando il tramonto, pensa: “Che senso ha vivere, se non hai nessuno con cui parlarne?” Ma anche questo pensiero non ha alcun valore, quando sei rimasta l’ultima lucertola.
Kenji è alieno alla società. La sua ricerca della morte non è motivata dalla disperazione o dall’infelicità, ma dal bisogno di distaccarsi dal caos e dallo stress della vita che lo circonda, dal bisogno di trovare un'”estasi” nella fine di tutto. Straniero in un Paese di cui non conosce nemmeno la lingua, Kenji non fa nulla per sforzarsi di comunicare con gli altri. Nella sua casa tutto è freddo, asettico, spoglio. Pile di libri ordinatissime, abiti identici dai colori spenti perfettamente sistemati all’interno dell’armadio, tutto al proprio posto.
Ratanaruang, con la sua regia, riesce a rendere il tutto percettibile anche a livello tecnico e a lasciare un’impronta ben definita. Le inquadrature sono perlopiù fisse, con piccoli movimenti di macchina che seguono lentamente gli spostamenti degli attori, suggerendoci le sensazioni a bassa voce.
L’intero film è permeato da una comicità grottesca, un filo sottile che ci accompagna dall’inizio alla fine, nei continui tentativi di suicidio, nella bizzarria del protagonista, nell’omaggio allo yakuza movie – con tanto di comparsata di Takashi Miike. Ma nella realtà dei fatti non ci si abbandona mai ad una risata liberatoria.
Due solitudini che si incontrano | Last life in the universe
L’incontro tra Kenji e Noi è a tutti gli effetti l’incontro tra due mondi completamente contrastanti. Perfezionista, timido e ordinato lui, impulsiva, sfrontata e disordinata lei. Non solo due personalità diverse, ma anche due culture estremamente differenti: il rigoroso Giappone e la calda Thailandia. E arrivati a Pattaya, paesino in cui vive lei, lo si percepisce subito: ci ritroviamo in una grande casa fatiscente, in cui si mischiano colori e stili e vige il disordine più totale, con roba accatastata e sporcizia ovunque. Il caos interno della ragazza si riflette nella sua abitazione, un caos a cui Kenji cercherà di porre rimedio, pulendo qua e là.
Le “ultime due vite nell’universo” si incontrano. Lui non ha più un posto nel mondo, lei è devastata dalla perdita della sorella e vuole cominciare una nuova vita a Osaka, da cui invece Kenji è fuggito. Il legame che si instaura tra di loro trascende qualsiasi definizione di affetto, amore o amicizia. Non è importante dare un nome a questo legame, poiché esso supera addirittura il linguaggio – ricordiamo che Kenji e Noi parlano due lingue diverse, e a stento riescono a comunicare in inglese.
Entrambi hanno un passato ingombrante, che si affaccia a regolare i conti nel momento in cui si conoscono. Ma, forse involontariamente, la presenza dell’uno per l’altro diventerà motivo di risoluzione dei loro turbamenti.
L’incomunicabilità dei nostri tempi e della nostra società, la solitudine dell’uomo moderno, la morte, sono temi spesso affrontati sullo schermo, quasi abusati. Ma Ratanaruang riesce a dare un suo tocco personalissimo a quello che ci mostra, grazie anche alla come sempre meravigliosa fotografia di Christopher Doyle, vecchia conoscenza di molti registi asiatici, su tutti Wong Kar-wai.
Ne risulta una pellicola intima e delicata, silenziosa, nichilista e di un’ironia cinica che però non fa mai sorridere, con un finale amaro e sognante. Assolutamente imperdibile.
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