Il genere action adventure è uno dei più apprezzati dai giocatori single player, ma allo stesso tempo è uno di quelli che più frequentemente tende a seguire fin troppo stereotipi e cliché, sopratutto per quanto riguarda il sottogenere archeologico. Non sarebbe ora di una rivoluzione nelle sceneggiature? Parliamo un po’ di Tomb Raider e di Uncharted
Sin da quando il 3D è entrato con prepotenza nel nostro modo di giocare, il genere action adventure si è ritagliato un posto di rilievo fra le mie preferenze raggiungendo poi il suo apice con l’arrivo della serie Uncharted su PlayStation 3. Non tutti i generi che apprezzavo sono riusciti a superare incolumi il susseguirsi delle generazioni, anzi, oggi come oggi non riesco davvero a spiegarmi come facessi a divertirmi da ragazzino a giocare in solitaria a generi fortemente competitivi come i picchiaduro e gli RTS, ma tant’è.
Uncharted è una serie di cui mi sono follemente innamorato fin dal primo capitolo grazie alla eccezionale caratterizzazione dei personaggi, alla meravigliosa trama, alla qualità degli enigmi e bla bla bla (inutile che dopo 11 anni dal debutto della serie vi torni ad elencare tutti i suoi riconosciuti pregi). Vi basti pensare che la mia passione per la saga è stata tale da farmi comprare PlayStation Vita per giocare all’esclusivo e modesto “L’abisso d’oro”, in tempi in cui ancora non si sospettava l’infausto destino della portatile Sony.
Poi nel 2013 arrivò il reboot di Tomb Raider. Square Enix, da anni in possesso della famosa IP, era riuscita a riesumare la serie caduta (fra una morte e risurrezione di Lara che neanche in Beautiful) in un imbarazzante limbo qualitativo.
La fonte di ispirazione della nuova riuscitissima vita di Tomb Raider era chiara: Uncharted. L’inedito capitolo delle avventure di Lara Croft infatti ne riprendeva parte delle dinamiche trasportandole in un eccellente contesto open world che diventava scenario di caccia e crafting, il tutto a servizio di meccaniche RPG che non andavano a snaturare l’anima action del titolo, bensì ad arricchirla. Interessante, divertente, affascinante. Insomma, nonostante non avessi mai apprezzato i capitoli originali a causa di una componente platform decisamente troppo lenta e macchinosa, il nuovo Tomb Raider era riuscito davvero a catturarmi.
Tomb Raider o Uncharted quindi? La scelta era ardua.
Rise of the Tomb Raider: si parte con una nuova avventura
È con questo spirito quindi che mi sono approcciato a giocare Rise of the Tomb Raider alcuni anni dopo essermi gustato il primo capitolo. Viste le recensioni entusiastiche mi aspettavo qualcosa di davvero grandioso, e con l’entusiasmo tipico di chi inizia un nuovo capitolo di una delle sue serie preferite, comincio la nuova avventura di Lara.
Durante le prime ore di gioco mi sembra di aver ritrovato un vecchio amico. “Tomb Raider è tornato”, penso io, e Lara è più bella che mai.
Eppure…
Man mano che procedo con la campagna qualcosa inizia a non quadrarmi.
La trama non mi appassiona e si fanno sempre più frequenti le situazioni già viste, riviste. Come se non bastasse l’open world non fa che diluire il tutto. I personaggi mancano di fascino e mordente, per non parlare del villain Konstantin: la fiera della banalità. Davvero in Crystal Dynamics hanno trovato una buona idea inserire un nemico principale fanatico religioso che afferma “Dio è con noi” salvo poi cavare gli occhi ai suoi stessi uomini nella scena successiva? Non ne abbiamo già visti troppi di soggetti del genere nel mondo videoludico e cinematografico?
Per fortuna le meccaniche di gioco sono ottime come nel precedente capitolo, anche se l’effetto novità sembra essersi esaurito facendo apparire tutto come un “more of the same”.
I miei stimoli nel procedere con la storia iniziano a cedere. Non mi sento preso, non mi sento coinvolto. Le scene con il villain sono ulteriormente demotivanti e mi rendo conto di riuscire a indovinare dove andrà a parare ogni singola cutscene.
Insomma, dopo tante ore poco incisive e disseminate di banalità, mi trovo ad affrontare Konstantin in una delle peggiori e più semplici boss fight che io abbia mai affrontato, facendomi concludere il gioco senza alcuna soddisfazione.
Come nelle migliori friendzonate, penso: “magari non è colpa tua caro Tomb Raider: magari sono io”. Ebbene sì: può darsi che sia saturo di action adventure, forse ne ho già giocati talmente tanti da non trovarli più stimolanti. Intanto la paura che anche Uncharted possa seguire la stessa sorte inizia ad insinuarsi nei miei pensieri.
Action adventure archeologico: la fiera dello stereotipo
Effettivamente i cliché del genere adventure archeologico sono molto numerosi e si ripropongono in maniera identica non solo nei videogiochi ma anche nella cinematografia. Indiana Jones, Il mistero dei Templari, Relic Hunter, ricalcano a grandi linee gli stessi meccanismi narrativi presenti non solo in Tomb Raider, ma anche in Uncharted.
Qualche esempio? Presto detto! Attenzione però, le seguenti righe potrebbero contenere spoiler sulla trama di “Shadows of the Tomb Raider” o “Uncharted 5: L’amicone di Drake diventato protagonista”.
Il/la protagonista ritrova un vecchio amico o una lettera del padre morto che lo/la convince ad andare alla ricerca di un artefatto leggendario. Nonostante l’oggetto sia rimasto dimenticato per parecchi secoli, proprio nello stesso momento un magnate milionario si è messo alla ricerca dello stesso e intende utilizzarne i poteri per conquistare il mondo. Tuttavia, nonostante disponga di risorse infinite, il cattivone non riesce a raccogliere indizi per recuperare l’oggetto, ma per il nostro eroe/la nostra eroina è un gioco da ragazzi e, quando trova un indizio sulla reale collocazione dell’oggetto, ecco arrivare il cattivone che gli/le ruba l’informazione e lo/la cattura. Prima di ucciderlo/a però gli/le fa un discorsetto al termine del quale succederà qualcosa (terremoti, invasioni aliene, carrambate di parenti emigrati in Argentina) che permetterà al/alla protagonista di scappare e, dopo aver affrontato l’intero esercito dei cloni, di salvare la situazione un millisecondo prima dell’apocalisse. La storia si chiude con il/la protagonista sporco e superficialmente ferito/a che sghignazza con la propria spalla allontanandosi al tramonto, senza essersi impossessato/a delle ricchezze che cercava inizialmente ma soddisfatto di aver salvato il mondo.
Shadows of the Tomb Raider: paure e speranze
Ebbene, la prospettiva che il futuro di questo genere che amo possa non discostarsi mai troppo dalle solite dinamiche mi spaventa, e mi fa pensare che presto potrebbe non avere più nulla da dire per poi inevitabilmente sparire nel nulla.
Un annetto dopo, con un po’ di timore, ho giocato Uncharted: l’eredità perduta, prendendola come una prova del nove: o la va o la spacca. Ebbene, mi ha entusiasmato dalla prima all’ultima scena: un degno sequel delle avventure di Nathan Drake e una linea di marcia su come dovrebbe procedere la serie in futuro. L’ulteriore prova che forse il cambio di direzione narrativa già visto in Uncharted 4 dopo l’abbandono di Amy Hennig non è stato poi un male, anzi.
E ora non resta che sperare che anche in Crystal Dynamics abbiano compiuto un’opera di rinnovamento delle dinamiche del genere, discostandosi quanto più possibile dai classici cliché permettendo così a Shadows of the Tomb Raider (qui il trailer) di stupire e appassionare anche chi di avventure fra vecchie rovine ne ha già viste a bizzeffe.
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