Finalmente abbiamo potuto mettere mano alla remastered di Project Zero: Mask of the Lunar Eclipse e ve ne parleremo in questa recensione
Probabilmente ai videogiocatori di vecchia data il titolo di cui andremo oggi ad effettuare la recensione, Project Zero: Mask of the Lunar Eclipse, potrebbe non suonare nuovo. In effetti è così, siamo davanti ad una versione remastered di un vecchio titolo uscito nel 2008, quarto titolo della serie Project Zero, conosciuto in Giappone col nome Zero ed in America con il nome Fatal Frame. Non esattamente un videogioco nuovo di zecca, ma che nonostante gli anni sulle spalle è ancora in grado di ammaliare i nuovi giocatori.
Un paio di foto non fanno mai male – Recensione Project Zero: Mask of the Lunar Eclipse
Dovremmo iniziare con il fare il solito “recap” della saga, considerando che Mask of the Lunar Eclipse non è altro che il quarto capitolo della saga. Il primo titolo che porta il nome di Project Zero vede infatti il suo esordio nel 2001 su PlayStation 2 targato Temco (divenuta nel 2010 Koei Temco), e la cosa che colpì più di ogni altra cosa fu il gameplay leggermente fuori dall’ordinario. Il videogioco infatti non solo era basato su una storia vera, ma era un survival horror in terza persona che poneva nelle mani del videogiocatore un’arma fuori dall’ordinario, una macchina fotografica.
Un survival horror in cui esplorando si scoprivano tutti i risvolti della trama, ma che in alcune fasi richiedeva un approccio in prima persona muniti di una speciale macchina fotografica. Questa era la nostra arma migliore contro i fantasmi e gli spiriti inquieti, i quali potevano essere inquadrati e scattando loro una foto era possibile assorbirne il potere fino a farli scomparire del tutto. Storie e gameplay che non variarono poi di moltissimo nel corso del tempo, ma attirarono ugualmente una nutrita schiera di videogiocatori che ne divennero fan.
Project Zero: Mask of the Lunar Eclipse non si discosta poi tanto dai canoni della saga, ci vede infatti impersonare delle ragazze (e un detective) che tornano sull’Isola di Rogetsu, nel sud del Giappone, alla ricerca dei loro ricordi. Tantissimi anni prima durante il festival di Rogetsu Kagura cinque bambine scomparsero misteriosamente e vennero salvate dal detective, tuttavia non hanno alcun ricordo di ciò che gli accadde.
L’Isola di Rogetsu venne distrutta da un cataclisma e i suoi abitanti decimati, e da allora il luogo rimarrà totalmente abbandonato. Dieci anni dopo il festival di Rogetsu Kagura tuttavia due delle cinque ragazze morirono inspiegabilmente, e questo porterà le tre sopravvissute ancora una volta a Rotetsu Island alla ricerca dei loro ricordi. Quale miglior posto per ritrovarli di un vecchio ospedale psichiatrico abbandonato e pieno di spiriti inquieti? È li infatti che si recheranno Misaki, Madoka, e Ruka.
Comparto tecnico old style – Recensione Project Zero: Mask of the Lunar Eclipse
Parlare del comparto tecnico di una remastered di un videogioco uscito nel 2008 suonerà un po’ strano, eppure dobbiamo farlo. A livello grafico non sono state effettuati grandi stravolgimenti, l’indubbia mano di “svecchiamento” del titolo c’è, e si vede, tuttavia resta pur sempre un videogioco che ha quel sapore d’annata. Non che sia necessariamente un male ci mancherebbe, ma è un titolo che punta perlopiù a farsi giocare da chi non ha potuto giocarlo all’epoca, come la gran parte dei remastered.
Questo è però un difetto se si parla strettamente di meccaniche di gioco, rimaste ahimè quelle di quindici anni fa. Non fraintendeteci, il gioco ha il suo innegabile fascino, sia nella trama che in tutto lo scorrere dell’avventura, tuttavia secondo un nostro parere sarebbe stato ottimale anche “smussare” quei lati più “spigolosi” di questo Project Zero: Mask of the Lunar Eclipse.
Nell’esplorare gli ambienti avremmo la necessità di illuminare con la torcia dei punti precisi delle stanze, questo affinché alcuni oggetti possano venir evidenziati con un punto luminoso. Prima di ciò non avremo alcuna indicazione (se non un’icona in basso a destra) che ci avviserà della presenza di un oggetto in quel determinato punto. Il che ci porterà molte volte a seguire l’indicatore in basso a destra, per poi cercare di smuovere la telecamera ruotando l’analogico in modo randomico, sperando che questo possa far comparire il tipico “puntino luminoso”.
In fase di esplorazione purtroppo noteremo gran parte delle limitazioni tecniche dei tempi che furono, con le varie animazioni ovviamente datate, e con una camminata e una “corsa” particolarmente lenti, per non parlare dei movimenti dei vari personaggi. Ma non possiamo giudicare tutto questo un vero e proprio difetto, semmai il difetto è stato quello di non aver ottimizzato il tutto rendendolo consono ai tempi moderni.
A nostro parere sarebbe stato meglio introdurre degli oggetti visibili immediatamente al videogiocatore, o quantomeno indicare con un icona la possibilità di raccogliere un oggetto senza la necessità di doverlo rivelare puntando la torcia in giro per le stanze o i corridoi. Chiaramente si tratta di oggetti quali potenziamenti, erbe medicinali, o lenti per la macchina fotografica, oggetti secondari insomma, però non poco utili per rendere l’avventura meno difficile.
Mettendo da parte queste piccole “storture”, che rappresentano comunque ciò che all’epoca era lo standard, non abbiamo grandi cose da portare in evidenza. Anche il comparto sonoro, per quanto reso più pulito e coinvolgente, rimane comunque fedele a quello che è lo standand dei videogiochi horror dell’epoca. Detta fra di noi forse giocare il titolo in una stanza buia e con un paio di cuffie alle orecchie vi darebbe un’esperienza di gioco più fedele a ciò che il titolo stesso vuole trasmettere.
Un survival horror vecchio stampo – Recensione Project Zero: Mask of the Lunar Eclipse
È ora di cimentarci nella parte di recensione che ci piace di più, e cioè parlare di come si comporta Project Zero: Mask of The Lunar Eclipse pad alla mano. Iniziamo con l’ovvio, e cioè ricordarvi che stiamo parlando di una remastered di un videogioco del 2008, le migliorie quindi ci sono state, tuttavia gran parte del gameplay è stato rinnovato di pochissimo. Siamo negli anni in cui titoli come Silent Hill o Forbidden Siren la facevano da padrone.
C’era un approccio horror molto diverso da quello che abbiamo visto nei tempi attuali con la serie Dark Picture Anthology, e all’epoca quello che ci veniva presentato era quanto di più bello potevamo godere sulle nostre console. Purtroppo anche il gameplay non era immediato o “fluido” da come lo conosciamo ora, persino la telecamera non era di certo ottimale.
Il videogioco si presenta come un survival horror in terza persona, in cui potremo muovere il personaggio in uso in quel momento (la storia verrà vissuta da tre personaggi diversi) esplorando quello che è in tutto e per tutto un ospedale psichiatrico. Il perché si sceglie proprio di incentrare il tutto in quel luogo è qualcosa che scopriremo nel corso dell’avventura. Il gameplay potrà sembrare, ai puristi, molto legnoso e la gestione della telecamera un vero inferno, ma in tempi lontani questo era ciò che passava il convento.
L’esplorare gli ambienti, voltarsi, illuminare con la torcia i vari punti (per evidenziare gli oggetti con cui interagire, rivelati solo in quel caso) o anche il solo centrare i fantasmi per scattare loro dei bellissimi ritratti, sarà qualcosa che andrà padroneggiato pian piano nel corso delle prime ore di gioco. Non sarà affatto raro che ci troveremo in difficoltà nel far voltare il nostro personaggio, nell’evidenziare un punto con la torcia per rivelare un oggetto, o muoverci e allo stesso tempo in prima persona con in mano la macchina fotografica dire ai fantasmi di fare un bel sorriso.
Anche i salvataggi saranno vecchio stile, si potrà infatti procedere a salvare utilizzando relative lanterne poste qui e li nell’ambiente, dove sarà possibile anche acquistare degli oggetti utili a curarci o pellicole atte a scattare foto più “dolorose” ai vari fantasmi. Ci sarà anche la presenza di cosmetici e vestiario, il tutto acquistabile attraverso dei punti che otterremo nel gioco nel fotografare sia le apparizioni di fantasmi “innocui”, sia nel dissolvere quelli che invece non apprezzano la nostra presenza.
Fortunatamente ad aiutarci ci saranno vari indicatori, come un indicatore presente in basso a destra che si illuminerà sempre più di blu se ci avvicineremo ad un punto con cui potremo interagire, o ad un oggetto che potremmo rivelare puntando la torcia in una determinate direzione. Non sempre infallibile, ma quantomeno sarà pur sempre un piccolo aiuto gradito, come l’apparizione di fantasmi che, letteralmente, ci guideranno nel punto esatto dove dovremo recarci per proseguire la storia. Niente escursioni a vuoto in giro per la mappa insomma.
A tal riguardo è corretto far notare due cose, la macchina fotografica potrà anche essere potenziata con diverse lenti che potranno essere trovate nel gioco, e a volte ci sarà la presenza di “forze paranormali” che ci bloccheranno delle porte. Quando ci ritroveremo davanti ad essere non dovremo far altro che scattare una foto alla porta stessa mettendo correttamente a fuoco la “forza paranormale” che la blocca, per capire quale sarà la distanza adatta basterà controllare il contorno dell’obiettivo, quando diventerà blu indicherà uno scatto ottimale.
Non mancherà la presenza di alcuni enigmi ambientali, utili a trovare un oggetto, che possa essere una chiave o altro. In realtà nulla che non abbiamo potuto risolvere in pochi minuti, gli enigmi proposti nel gioco saranno perlopiù risolvibili con un minimo di logica. Peccato per la telecamera che a volte sarà veramente ostica da gestire.
Conclusione
In fase di recensione di Project Zero: Mask of the Lunar Eclipse non abbiamo trovato veri e propri bug, non nella versione da noi testata e cioè quella di PlayStation 5, quantomeno non nel senso stretto del termine. Gran parte del titolo, sia come comparto tecnico che come gameplay, è rimasto molto fedele a quello originale del 2008, anche se qui e li ci sono stati ovvi lavori di svecchiamento. Purtroppo lato gameplay, pad alla mano, risulta ancora molto ancorato a quelli che erano i tecnicismi dei primi anni 2000.
Additare tutto questo come un difetto del gioco sarebbe pressoché fuori luogo, d’altronde stiamo parlando di una remastered che trae tutto il suo fascino dal poter presentare un gioco uscito nel 2008 su piattaforma Nintendo Wii, a tutta un’altra fascia di videogiocatori che magari a quel tempo non hanno potuto mettere le mani su questo titolo. Che ricordo, consigliamo di giocare con cuffie e al buio, se proprio volete godervi l’avventura al meglio.
Non è un videogioco da evitare, tutt’altro, lo abbiamo trovato un titolo divertente e mai frustrante. Ci sono soltanto due uniche vere problematiche del titolo, che potrebbero risultare un deterrente per l’acquisto, l’assenza della lingua italiana e la difficoltà tendente al rialzo verso le ultime ore di gioco. Se per il secondo problema basterebbe fare un po’ di backtracking e raccogliere le pietre utili al potenziamento della macchina fotografica, per il primo problema non c’è soluzione.
Il dover comprendere il passato delle protagoniste o gli accadimenti attraverso note e taccuini senza essere ferrati nella lingua inglese potrebbe essere complicato, ma anche qui diciamo che per la fortuna di tutti basterebbe una comprensione della lingua nella media per non perdersi gran parte della storia. Anche se non masticate benissimo la lingua, vi consigliamo ugualmente di prendere in considerazione il non privarvi di quest’opera.
Per questa recensione è tutto, ad ogni modo per restare sempre aggiornati su tutto ciò che ruota nel mondo dei videogiochi (e non solo) vi consigliamo vivamente di restare ancorati alle pagine di tuttotek, e se cercate videogiochi davvero a basso costo per andare a risparmio sicuro non possiamo che consigliarvi di sfogliare le pagine del sito Kinguin, dove potrete trovarne tantissimi a prezzi davvero stracciati.
Punti a favore
- Una remastered dall'indubbia qualità visiva
- Un vecchio survival horror dei tempi d'oro
- Trama e storia avvincenti
Punti a sfavore
- Gameplay datato e poco svecchiato
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