Outcast ritorna in questo (mezzo) remake che non vuole saperne di proporsi in maniera furba e onesta: scopriamo perché Second Contact non merita la vostra attenzione
Diciotto anni. Questo è il tempo intercorso tra l’originale Outcast e il suo (mezzo) remake Outcast – Second Contact. Ogni ritorno dal passato si fonda su due pilastri: la necessità di proporsi a un pubblico nuovo (o anche solo rimodernato) e il bisogno di non tradire la propria identità. Un percorso che risulta più difficoltoso tanto è il tempo intercorso.
Quanto pesano diciotto anni?
Outcast: il primo contatto
Outcast viene considerato un pioniere degli open world grazie alle innovazioni tecniche e ad una non linearità che permetteva fin da subito di esplorare tutto il mondo di gioco, dotato di complesse regole. Vinse molti premi e divenne un piccolo oggetto di culto tra gli appassionati, senza però ottenere una grande fama.
Outcast raccontava (e racconta anche oggi) la storia di Slade Cutter, Navy SEAL degli Stati Uniti, un uomo tutto d’un pezzo che è stato chiamato al dovere ancora una volta. La sua nuova missione gli richiederà di esplorare un mondo parallelo, raggiunto tramite un passaggio aperto da un esperimento fallito legato alle particelle subatomiche. Tale passaggio sta risucchiando la nostra Terra e Slade, insieme a tre scienziati, deve fermare l’anomalia.
Nel viaggio verso l’altro mondo, però, qualcosa va storto e Slade si risveglia in mezzo a degli alieni, i Talan, senza avere idea di dove si trovino gli scienziati. Il SEAL scopre che gli abitanti del pianeta (Adelpha) lo considerano un Ulukai, ovvero un messia il cui arrivo è stato annunciato da un profeta. Il compito dell’Ulukai è di sconfiggere Fae Rhan, un malvagio dittatore. Slade, solo e senza la maggior parte del proprio equipaggiamento, accetta tale ruolo per ottenere l’aiuto di un piccolo gruppo di Talan ribelli. Qui inizia la nostra storia.
Outcast: verso il Second Contact
Questo (mezzo) remake propone tutta una serie di novità e miglioramenti. I controlli, la visuale, le velocità di gioco, l’interfaccia dei menù e vari dettagli sono stati ritoccati rispetto alla versione originale. Gli sviluppatori affermano di aver aggiunto nuove aree e, inoltre, alcune meccaniche che nel 1999 erano invisibili ora sono state rese più esplicite tramite un menù apposito. La grafica stessa è stata quasi completamente rifatta, soprattutto per quanto riguarda modelli poligonali e texture.
Non è cambiata in alcun modo, invece, la narrazione, il comparto sonoro e le meccaniche di gioco. Oggi come ieri il nostro compito è quello di ritrovare cinque Mon, oggetti sacri per i Talan, nascosti in altrettante regioni di Adelpha. Questa è la nostra missione principale, ma in ogni area dovremo anche avere a che fare con tutta una serie di NPC che ci proporranno missioni secondarie. Tra questi, ci sarà sempre un governatore della regione che, una volta soddisfatte determinate condizioni, accetterà di aiutarci nella lotta contro Fae Rhan provocando una rivolta dei lavoratori. All’atto pratico, questo indebolirà i soldati nemici rendendoci la vita più semplice (ad esempio: bloccando i lavori nei campi di coltivazione, i soldati non avranno cibo e quindi meno salute).
Slade avrà dalla sua fino a sei armi da fuoco (inizieremo solo con una) e dovrà combattere i fedeli a Fae Rhan tramite scontri a fuoco e meccaniche stealth.
Outcast: contatto fallito
Per quanto ogni elemento sia stato rimodernato, in misura più o meno sensibile, Outcast – Second Contact risulta essere sotto la maggior parte dei punti di vista un’opera troppo vecchia. È caratterizzato da una vetustà che non si presenta come una riscoperta di meccaniche perdute e ancora detentrici di un solido nucleo ludico, ma si impone come una riproposizione di idee superate che diventano irrispettose verso se stesse, in quanto modificate da aggiornamenti fintamente moderni e che non possono soddisfare né il fan già saturo di anni d’esperienza né il nuovo giocatore.
Passo uno: uccidere
Outcast – Second Contact si presenta con un impianto da sparatutto in terza persona (senza coperture ovviamente) con un sistema di mira semi automatico in cui il giocatore deve solo cercare di direzionare il puntatore verso i nemici e premere il grilletto mentre l’arma decide in solitaria se agganciare l’obbiettivo o meno. Esiste anche l’opzione di rendere completamente manuale la gestione della mira, ma è un’eventualità sconsigliabile a causa della legnosità dei comandi e dei movimento del protagonista.
Il combattimento ruota attorno ad un lento e ripetitivo gioco del nascondino, in cui l’IA dei nemici sarà solo interessata a tenersi a debita distanza da noi sparando un discreto numero di colpi, convenientemente in grado di penetrare gli ostacoli. Tali proiettili sono però lenti e prevedibili: il giocatore moderno capirà immediatamente che è sufficiente combattere dalla media distanza per schivarne la maggior parte.
Se tale sterilità action dovesse spingere il giocatore a tentare approcci stealth, si vedrà costretto a cambiare rapidamente idea. Slade non è in grado di combattere furtivamente (attraverso prese o colpi silenziosi) ma solo di muoversi chinato, per evitare i nemici. Un approccio che può risultare utile per posizionare trappole esplosive ed eliminare i nemici in maniera indiretta, ma che si rivela solo lento e scomodo, non preferibile ai, solamente scomodi, combattimenti faccia a faccia.
Fortunatamente i nemici sono in numero limitato e non riappariranno dopo la morte. Ben presto quindi ci prepareremo a entrare in una nuova regione, pistole alla mano, intenzionati a liberarci di ogni puntino rosso sulla minimappa, non tanto poiché ci viene richiesto dal gioco, ma poiché non vorremo avere noie quando dovremo scorrazzare in giro a completare missioni.
Passo due: esplorazione e dialoghi
Ed è il sistema delle missioni il vero nucleo di Outcast. Tra principali e secondarie, andremo alla scoperta del gioco che ha definito l’abbiccì degli open world.
Outcast risulta essere perlopiù una grande e stratificata fetch quest, ovvero quella tipologia di missione in cui un committente ci richiede di trovare un oggetto e portarglielo. È anche vero, però, che il gioco fa di tutto per inserire un contesto nel marasma di andirivieni in cui è coinvolto il giocatore. Il mondo di Adelpha, con tutte le sue ideologie, terminologie e storie, si apre al giocatore paziente che accetta di completare ogni dialogo disponibile. Una certa verbosità è uno scotto non particolarmente oneroso da dover pagare per poter godere del vero unico pregio di questo (mezzo) remake.
Purtroppo finiti i dialoghi tocca andare avanti e indietro a raccogliere qualche materiale, a cercare un Talan in mezzo alla folla aiutati dal sistema di localizzazione che, nell’opera originale, era a dir poco rivoluzionario, ma oggigiorno è un buffo modo per salvarsi dalla necessità di lavorare sul level design. In molte occasioni, infatti, dovremo scovare uno specifico alieno e dovremo farlo chiedendo a un passante se l’ha visto: questo ci indicherà la direzione (con i punti cardinali) e ci darà un’idea della distanza (“fai molti passi”, l’ho sentito spesso). Ecco quindi trovato Zun, che ci darà una manovella per Quon che ci chiederà di portarla a Molen. Quindi, se non si è capito, niente indicatore della missione, niente freccia che ci dica cosa fare: dovremo parlare e cercare in giro; normale all’epoca, strano per alcuni oggi. Questo è l’unico elemento non rimodernato che ancora ha qualcosa da dire, pretendendo un po’ di attenzione e impegno, ma che da solo non può sostenere tutta una struttura ludica.
Corri qui e corri là, quindi, con un sistema di stamina noiosamente dispendiosa, con lo scatto che si attiva in ritardo ed è legato allo stesso tasto della schivata e ci fa rotolare di lato invece che curvare in corsa, con il salto che ha un’animazione poco gestibile e che non riesce ad appendersi agli appigli due volte su tre e una telecamera che fatica ogni qualvolta si entri in un’ambiente chiuso. Il tutto in un mondo che è stato coperto da nuovi poligoni e nuove texture ma che è spesso un distesa semi piatta e semi vuota, stilisticamente solo discreta per quanto sufficientemente varia, e che risulta noioso da esplorare ogni qualvolta tenti un po’ di tridimensionalità.
Outcast: dal passato ancora nel passato
Un mondo non solo un po’ povero, ma anche tecnicamente indietro di una generazione. Outcast – Second Contact è un discreto gioco PS3 (no, non PS4, non è un refuso), con però quasi tutte le animazioni originali (non aspettatevi che i pg si muovano in modo sensato quando parlano). Aggiungete un frame rate che fatica a mantenersi sui trenta fps, glitch grafici assortiti, crash fin troppo frequenti (i cui danni vengono limitati dal frequente sistema di autosalvataggio) e avrete un’idea dell’intelaiatura esile che sorregge questo gioco. Se non bastasse, tutto il sistema dei menù e dell’interfaccia (ricreato per Second Contact) è uno sterile bianco spento su azzurro semi trasparente. Orrido stilisticamente e poco leggibile nella maggior parte dei casi. Ciliegina sulla torta, l’adattamento italiano dei sottotitoli è tutt’altro che esente da errori.
Un insieme di difetti che infastidiscono il giocatore che non viene invogliato a proseguire nemmeno dalla trama principale del gioco. Il filmato iniziale da cinque minuti racconta più di quanto ci sarà poi in tutto il resto dell’opera, che risulta essere un insieme di macchiette (a voler essere gentili) e che ha come unica freccia al proprio arco un “plot twist” telefonato fin dal primo istante. Come già detto, perlomeno il mondo di Adelpha è interessante da scoprire: non si può parlare di una vera e propria trama principale, ma più che altro di un contesto che, per quanto corposo e reale nucleo dell’opera, non può bastare per creare coinvolgimento e interesse per gli eventi futuri.
Sommiamo poi la presenza del doppiaggio originale, che per gli standard odierni è godibile come un trombetta sparata nelle orecchie. Fortunatamente l’ost è di alta qualità e riesce a donare un po’ di atmosfera a un mondo che non è stato riproposto nel modo migliore.
Outcast – Second Contact: oggi
E proprio questo è il punto. Il problema non sono le meccaniche vecchie e che non possono attirare un giocatore moderno (che lo sia nato o lo sia diventato poco cambia) o un’impostazione tecnica che non ha potuto raggiungere nemmeno i livelli dei peggiori titoli budget degli ultimi anni. Queste caratteristiche definirebbero un titolo inadatto a molti, ma perfetto per i fan che vogliono supportare con i propri sudati quattrini un’opera amata.
Outcast (quello originale) merita rispetto e di essere scoperto anche solo per un gusto filologico, ma Second Contact è un tentativo mal riuscito che cerca di rimodernarsi senza alcun tipo di impegno, se non, a essere cinici, di far cassa con il solo nome, visti i 50€ richiesti. Fan di Outcast, giocate ancora una volta alla 1.1 e lasciate perdere Second Contact.
Nel caso in cui siate comunque interessati all’opera, nuovi giocatori, aspettatevi circa venticinque ore di gioco per completare la trama principale e il 60-70% delle secondarie.
Un’ultima nota: il gioco, ovviamente, ha i trofei; assurdamente, il platino è ottenibile prima ancora di finire la trama principale. Questo ovviamente non influisce sul voto, ma rappresenta ciò che è Outcast – Second Contact: un prodotto realizzato in modo poco attento, ovvero qualcosa da non premiare.
Si ringrazia Bigben Interactive per averci concesso il codice per la recensione. Il gioco è disponibile su PC, Xbox One e PlayStation 4 (versione da noi giocata).
Punti a favore
- Il mondo di Adelpha è interessante
- Le OST sono notevoli
Punti a sfavore
- Meccaniche invecchiate male
- Tecnicamente arretrato e con troppi problemi
- Miglioramenti indietro di dieci anni
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