Il titolo potrà sembrare sensazionalistico, ma questa volta non si tratta di un venditore di fumo: studi scientifici sembrano avere identificato in una pianta giapponese una molecola che interviene nei meccanismi di invecchiamento cellulare
Si sa: il popolo giapponese è noto per la sua longevità. Proprio lo scorso anno morì Nabi Tajima, un’arzilla vecchietta che deteneva il primato di persona più anziana del mondo ed è tutt’ora la terza persona più longeva della storia con un ammontare di 117 anni e 260 giorni. Che sia un fatto correlato alla scoperta delle pianta originaria del Giappone?
Per noi invecchiare significa cominciare a vedere le prime rughe, i capelli che pian piano perdono colore e anche la presa, i primi dolori e acciacchi fisici. Ma come funziona a livello cellulare? La risposta non è banale. Con l’invecchiamento essenzialmente ogni processo molecolare che regola l’organismo, dalla sintesi di nuove proteine alla produzione di energia, subisce dei deterioramenti e degli errori che provocano un calo delle prestazioni. I deterioramenti possono essere dovuti a fattori esterni, ad esempio esposizione prolungata alla luce del Sole, lavori ripetitivi e usuranti, inquinamento e sostanza tossiche, alimentazione scorretta, oppure anche interni. Durante la normale attività dell’organismo infatti vengono prodotte delle sostanze tossiche che vanno ad interferire con l’omeostasi – o equilibrio fisiologico o per farla più semplice “corretto funzionamento” – dell’organismo.
L’invecchiamento che vediamo a livello macroscopico è dovuto alla combinazione di numerosi fattori microscopici
Uno dei meccanismi di deterioramento più diffusi nell’organismo è quello basato sui radicali liberi. Per radicali liberi si intende una classe di molecole fortemente reattivi perché caratterizzate da uno squilibrio di elettroni che cercano di colmare reagendo con qualsiasi molecola si trovi nei dintorni: proteine, grassi, zuccheri, DNA, nessuno escluso. Essi decadono quindi molto rapidamente, ma possono provocare gravi danni alle cellule, spesso una piccola quantità di radicali liberi è sufficiente ad innescare una reazione a catena che danneggia parti molto estese delle cellule. I radicali liberi sono molecole che vengono naturalmente prodotte dall’organismo, ad esempio sono necessari nei processi di respirazione cellulare e sono utilizzati da particolari tipi di linfociti per sbarazzarsi di organismi patogeni. Nonostante siano “fatti in casa”, nessuno vieta ai radicali liberi di attaccare le cellule del nostro corpo.
Infiammazioni in cui viene evidenziata le presenza di molecole di radicali liberi
L’accumularsi dei danni provocati dagli agenti esterni e dai processi interni provoca il graduale deterioramento dell’organismo con la comparsa di infiammazioni, patologie croniche e perfino tumori, fino alla compromissione delle funzioni vitali. Fortunatamente questo processo è rallentato da una serie di meccanismi che intervengono per correggere gli errori. Un esempio sono i sistemi di correzione degli errori durante la duplicazione del DNA nella riproduzione cellulare. A livello cellulare opera anche un altro meccanismo di correzione, scoperto curiosamente dal biologo giapponese Yoshinori Ohsumi e che gli consentì di vincere il premio Nobel per la Medicina non troppo tempo fa. Si tratta dell’autofagia cellulare o autofagocitosi, un processo che elimina selettivamente i componenti citoplasmatici danneggiati. Oltre a riconoscere gli organuli danneggiati che compromettono il corretto svolgimento delle funzioni cellulari, l’autofagia permette anche di riciclare il materiale per riutilizzarlo nella produzione di nuovi componenti cellulari. I costituenti citoplasmatici danneggiati vengono isolati all’interno di una vescicola che trasporta il tutto all’interno di un lisosoma, l’organulo cellulare che si occupa di degradare e smaltire le molecole estranee o dannose per la cellula.
Processo di autofagia cellulare
Il meccanismo di autofagia riesce quindi a correggere gli errori ed è proprio qui che interviene la nostra pianta giapponese.
Invecchiamento: una pianta giapponese può combatterlo
Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Nature Communications dai ricercatori guidati da Frank Madeo, dell’università austriaca di Graz. La scoperta evidenzia una nuova molecola che combatte l’invecchiamento cellulare e si trova in uno pianta molto comune in tutto il Giappone. I primi test in laboratorio hanno dimostrato che questo elisir di eterna giovinezza è in grado di aumentare la vita media di lieviti, vermi, moscerini e perfino cellule umane allevate in laboratorio.
Il vegetale dei miracoli si chiama Angelica Keiskei, una pianta da fiore della stessa famiglia delle carote da tempo utilizzata nella medicina tradizionale giapponese per i suoi effetti benefici. I ricercatori hanno quindi analizzato le molecole antiossidanti presenti nelle foglie della pianta. Gli antiossidanti sono molecole che rallentano o prevengono le reazioni di ossidazione, proprio quelle provocate dai radicali liberi alla famelica ricerca di elettroni. Durante l’identificazione delle sostanze è stato rilevato un flavonoide che riesce a rallentare l’invecchiamento delle cellule associato allo scorrere del tempo, lavorando proprio sul meccanismo dell’autofagia cellulare scoperto da Yoshinori Ohsumi.
Infiorescenza di Angelica Keiskei, la pianta dell’eterna giovinezza
Aumentare le prestazioni del sistema di correzione e riciclo interno alle cellule aiuta a prevenire infezioni, infiammazioni e mantiene in attività per un periodo più lungo le cellule. Nei test svolti su lievito, vermi e moscerini della frutta l’uso della molecola ha aumentato del 20% la vita media dei soggetti e anche nelle cellule umane in coltura si è rilevato un rallentamento dell’invecchiamento e una minore incidenza delle problematiche legate alla senescenza cellulare. Un interessante risultato sperimentale è stato ottenuto anche nei topi con patologie al cuore, in particolare soggetti ad una riduzione del flusso sanguigno ( identificata con il nome di ischemia miocardica prolungata): il trattamento con la pianta dell’eterna giovinezza ha permesso di proteggere i tessuti dal danneggiamento dovuto dalla scarsa affluenza di sangue. L’autofagia quindi non solo interverrebbe nella correzione degli errori, ma anche nella protezione dei tessuti in caso di particolari patologie.
Lo studio approfondito di questa molecola potrebbe aprire la strada a trattamenti anti-invecchiamento e a terapie efficacie contro le patologie croniche oggi incurabili. L’elisir di eterna giovinezza è però ancora distante: una delle teorie più accreditate sull’invecchiamento infatti ipotizza che il declino delle funzioni vitali sia dovuto all’accumulo di danni di piccola entità che hanno un’origine casuale e molteplice. Purtroppo i sistemi di riparazione non sono perfetti e non riescono a rimuovere tutti gli errori, che con il tempo si accumulano inevitabilmente. La molecola identificata lavora solo su uno dei tanti meccanismi che contrastano l’invecchiamento e quindi può solo rallentare il processo e darci qualche anno in più di sollievo.
La spedizione Xu Fu, alla ricerca dell’elisir di eterna giovinezza
In ogni caso uno stile di vita sano basato su di un’alimentazione equilibrata e ricca di sostanza antiossidanti, un’attività fisica costante e l’adeguata protezione dall’esposizione ai fattori dannosi come inquinamento e luce solare intensa, può essere davvero la chiave di una vecchiaia in salute. Anche alcuni studi svolti sulla dieta della popolazione giapponese, basata su pesce, riso e verdura, hanno in parte giustificato la longevità del giapponese medio. Dalla sezione scienze è tutto, se volete evitare di invecchiare leggete qualche altro articolo invece di mangiarvi quelle gustose frittelle alla crema che avete appena comprato in pasticceria… e va bene, solo una però!
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