Diego K. Pierini è l’autore di “Vite Infinite”, un libro che si ritrova a metà tra l’autobiografia e la descrizione storica di un mondo amato da milioni di persone: quello videoludico. Di seguito troverete la trascrizione della nostra intervista
Di “Vite Infinite” ne abbia già parlato qui. Di seguito potete leggere la trascrizione della nostra intervista all’autore del libro, Diego K. Pierini.
Vite Infinite: intervista all’autore del libro
Salve Diego.
Il suo libro è veramente unico. Un’ondata di nostalgia che ti viene lanciata diretta in faccia, senza alcun tipo di protezione, che riesce a farti rivivere dolci momenti passati tramite solo il titolo di un vecchio, inebriante, gioco. La mia prima domanda non poteva che essere “perché si ritiene un videogiocatore?”, ma avendo letto il libro ho già tutte le mie risposte; quindi mi permetto di andare oltre, toccando sia la passione del giocare il software, sia quella nel crearlo.
- Pierini, Diego K. (Author)
D: Innanzitutto volevo chiederle, in passato (quasi agli albori dei videogame) molti giocatori e fans del mercato non sono mai riusciti a superare la fase di “production” del loro software a causa degli alti costi del mercato di allora. Oggi ritiene che sia più facile e meno costoso produrre un gioco, grazie all’avvento anche del mobile game?
R: Ciao e innanzi tutto grazie mille, sia per lo spazio che concedete a “Vite infinite”, sia per le belle parole introduttive. Lo dico subito: passerò al tu, è grammaticalmente più lineare e sono meno soggetto a incartarmi. Il paragone tra le due epoche, secondo me, è da prendere con le molle, in assoluto: da un lato c’è un certo parallelismo con quanto accade nel settore musicale, con un’estensione pressoché infinita dei creatori, possibile grazie all’abbattimento dei costi di produzione e (specie nel caso dei giochi) di distribuzione, inoltre credo si possa trovare un elemento di continuità importante nel fatto che per me programmare un gioco sarebbe stato difficilissimo prima e lo è anche adesso, considerando che sono due giorni che cerco di cambiare l’orario al mio orologio a lancette senza riuscirci. Di contro, il mercato di oggi è un “oggetto” diverso: sono cambiati i supporti di gioco, ma è cambiato anche il concetto di gioco stesso. Esplosione dell’indipendente, disponibilità universale delle periferiche, sdoganamento dell’attività in sé sono tutti elementi che rendono il gioco più presente, anche come opportunità creativa. Però va anche ricordato che i pionieri dell’epoca programmavano spesso in modo assolutamente privato e individuale – mi viene in mente Jeff Minter, che cito nel libro – ed esploravano le potenzialità ludiche delle macchine in modo completo. Di certo si sono sviluppati sistemi di creazione (interfacce, editor, ecc.) più user friendly. Ecco, più che “facile” o “economico”, direi che oggi creare un gioco è più “amichevole”. Poi però viene la parte difficile: farlo giocare.
D: Le chiedo questo perché, come fa notare nel tuo libro, prima era molto più facile imbattersi in videogiochi sconosciuti che sarebbero potuti diventare il trend del momento. Oggi con gli indie è un po’ più difficile (senza considerare Minecraft naturalmente). Ma è anche vero che prima era tutto diverso. Partiamo dalle sale giochi ed i cabinati. Quanto pensa influivano questi sulle relazioni tra i videogiocatori?
R: Su di me hanno influito molto: ero apprezzatissimo dai ragazzi più grandi che mi usavano come distributore di gettoni. Indubbiamente, la sala giochi era un luogo d’aggregazione tematico, quindi fondato su dinamiche socializzanti forti: condivisione della passione, delle informazioni, del fumo passivo. E poi va detto che il cabinato, in sé, è rimasto piuttosto simbolico – totemico, direi – anche oggi: un oggetto concreto, imponente, che afferma la sua distanza dall’astrazione molto volatile del gaming contemporaneo, che si sta spostando in modo massiccio verso la pura dimensione online, la quale fornisce una prospettiva di socializzazione diversa. Una differenza piuttosto grande tra la sala giochi e il multiplayer odierno è che nel primo caso l’attività collaterale fatta di attese, osservazione delle partite altrui, spostamento e selezione era pari, se non maggiore, rispetto all’attività di gioco vero e proprio. Il videogame era in un certo senso meno centrale, mentre oggi grazie ai sistemi di controllo (presto anche grazie all’uso imponente del VR) e all’immersività dei gameplay il momento del gioco è focalizzato, assoluto, e occupa le risorse mentali, operative e temporali più che in passato.
D: E’ d’accordo con il fatto che mentre prima i cabinati portavano i ragazzi a riunirsi per giocare, oggi il multiplayer online (e la mancanza di quello locale in quasi tutti i giochi) porti a non fare amicizie giocando ma forse anche ad odiarsi (vedi cosa succede con il nuovo Overwatch)?
R: Al tempo avrei probabilmente giurato che prendersi sganassoni come capitava ai nerd un po’ timidi e un po’ scassaballe come me fosse indiscutibilmente peggiore di un astrattissimo “odio virtuale”. Oggi mi rendo conto che in fondo lo sganassone impatta e passa, il vilipendio online è – come da manuale – virale. Cioè si propaga, si moltiplica, fiacca il sistema immunitario e nuoce di brutto. Ma non sono così convinto che l’oggi sia terreno di sole dinamiche deleterie, anzi. La circolazione di informazioni è e resta più fluida, la possibilità pura di intrattenere un rapporto, per quanto frammentario e talvolta spersonalizzato, con un numero enorme di pari continua a sembrarmi un’opportunità. Che forse non siamo ancora riusciti a sfruttare appieno, ma è il destino di ogni tecnologia giovane. Indubbiamente la sala giochi aveva un vantaggio: non ti avvicinavi in modo completamente casuale a chiunque. C’era l’istinto, il paraverbale, la dinamica di gruppo, il fiuto. Selezionavi il tuo partner di gioco dopo aver già operato una scrematura di primo livello, spesso il gioco era parte di una sinergia di fattori di avvicinamento. Non siamo fatti per stare a contatto scelto e consapevole con masse in sovrannumero.
D: Considerando invece i prezzi dei videogame e la pirateria degli anni passati (che manca a molti di noi (?), forse). Ritiene giusto i prezzi a cui i videogame vengono commercializzati?
R: Io sto ancora aspettando con speranza la rivoluzione e la fine del mercato, più che altro per bieco calcolo personalistico, viste le mie abilità commerciali assolutamente ninja (nel senso di “difficilissime da individuare”). Mi sono spesso “autopiratato”, in passato, spero il reato sia prescritto o che i miei vecchi editori non leggano mai questa intervista. Nel frattempo, resto convinto che la pirateria sia uno dei più lampanti esempi di come la realtà progredisca in modo conflittuale: rappresenta un fattore di evoluzione e promozione, tanto quanto di erosione degli introiti. Croce e delizia, in un certo senso: giusto che esistano pratiche di controllo e repressione, altrettanto desiderabile che la pirateria si sviluppi e fiorisca. Il valore positivo è nell’impatto tra queste due istanze. Quanto alla questione prezzi, in realtà non sono cambiati granché rispetto al passato, anzi direi che tra offerte, copie digitali, scambio di usato e quant’altro il gioco originale sia più accessibile – e ora i miei mi passano una paghetta più consistente, quindi ho molti più modi per rovinarmi le retine. Senza contare il gigantesco comparto del free gaming, dell’indipendente low cost, delle produzioni ibride (il crowdfunding è un sistema molto potente). Semmai credo che sollevi qualche problema in più la trasformazione del gioco in servizio, con micropagamenti continui cui a volte è difficile sottrarsi – mi capita sempre col porno, per dire.
D: D’altronde, come spiega perfettamente in Vite Infinite, alcuni giochi sono oramai una mera riproduzione della realtà che elimina qualsiasi voglia da parte del giocatore di esplorare a causa del fatto che manca il fattore “ignoto”. Possiamo considerare quelli di ultima generazione veri e propri videogame o dobbiamo considerare i videogiocatori come la generazione 2.0?
R: In realtà non sono stato così “duro”, col videogioco odierno, anzi: lo guardo con molto, molto interesse e trovo che abbia potenzialità notevolissime, oltre che un fascino piuttosto magnetico, per esempio in senso di apprendimento – d’altronde imparare a investire un pedone è sicuramente più utile che imparare a maneggiare una lancia mentre si cavalca uno struzzo. Penso semmai che il videogame odierno sia animato da un concetto ludico diverso, più legato a narrazione e generazione di esperienze, mentre il videogame in passato era pura e semplice attività ricreativa/competitiva. Cambia anche il videogiocatore, ovviamente: meno interpretazione e manipolazione di schemi logici, per esempio, ma più capacità di elaborazione di stimoli e informazioni multisettoriali in tempo reale, per esempio. Il videogame ha nel tempo operato una transizione: era scientifico, è diventato umanistico. Non è un caso, nell’ottica di progresso strutturale delle tecnologie, il cui volto si fa sempre più organico. Ma è un discorso complessissimo che travalica la mia capacità di razionalizzare (cit.).
D: In effetti, siamo nell’anno dell’uscita della nuova Nintendo Switch, in cui molti hanno visto un alto potenziale, mentre altri credono che possa diventare un altro fallimento in stile Wii U. Lei cosa ne pensa?
R: In tutta sincerità, mi sembra si tratti di un esperimento interessante. Ma pur sempre un esperimento. Nintendo ha creato la sua fortuna su una cifra stilistica molto specifica, ma ho l’impressione che nella ricerca di nuovi paradigmi (che sono necessari, la vecchia tecnologia videoludica ha raggiunto i suoi limiti) l’azienda giapponese sta proponendo hardware ricchi di intuizioni sviluppate in modo incompleto. Il sistema ibrido di Switch ha il sapore del gadget gustoso, ma non mi sembra un possibile fattore di svolta, non mi sembra possa settare un trend. E allora la sfida tra marchi resta ancora basata su performance e, soprattutto, titoli a disposizione. Su questo terreno, vedo Sony e Microsoft ancora in vantaggio, anche se ovviamente l’Amiga è meglio.
D: Parlando invece della persona del videogiocatore. Spesso mi sono imbattuto in considerazioni, anche fatte da lei, in cui in vantaggi di essere un giocatore (che magari si avvicina al nerd, ma non considerato così come nella società odierna) possano essere svariati. Dal lato mio noto come molti giocatori, rispetto a chi non usa abitualmente una consolle o un PC per motivi videoludici, possa essere avvantaggiato in diverse situazioni anche stressanti; o comunque abbia skills sviluppate come dei riflessi migliori. Le mie convinzioni possono risultare sbagliate?
R: Sottoscrivo assolutamente, giocare molto migliora in modo netto molte abilità: io sono arrivato vergine a 38 anni ma schivo le gocce di pioggia quindi posso evitare di portare l’ombrello quando esco. Poi, certo, ci sono anche abilità utili realmente: per esempio in linea di massima l’utilizzo di piattaforme di gioco, specie le più vecchie, genera per ovvie ragioni una maggior competenza in termini di dialogo con le tecnologie. Dover far funzionare un sistema, magari superare gli scogli imposti dal possesso di copie pirata, ottimizzare un hardware poco performante: sono tutte problematiche cui un giocatore medio ha spesso fatto fronte in giovane età e ognuna di esse affina sia le capacità di diagnosi che di risoluzione di un problema attraverso l’utilizzo di risorse a volte anche molto limitate. Senza dimenticare quanto detto prima: manipolazione di simboli, memorizzazione di pattern, ma anche elaborazione di informazioni e frammenti di narrazione, sono tutte attività di elevato valore in termini di formazione di competenze e abilità – il che rende il gioco uno strumento utile e positivo anche per i più piccoli, al netto dell’ovvio controllo critico e consapevole che deve essere esercitato da chi si occupa della loro educazione. E poi è grazie a Tetris che posso prendere un volo low cost senza superare sistematicamente i limiti di volume del bagaglio a mano (che sono più o meno quelli di un portaocchiali).
D: Non vorrei dilungarmi ancora molto, per questo trattengo tutto l’entusiasmo che avrebbe un giocatore quando si ritrova dinanzi ad uno sicuramente più esperto. Per questo le espongo le mie ultime due domande. Innanzitutto, cosa pensa di quei magazine, giornali e media in generale che nella loro ignoranza, rispetto alla materia trattata, gettano fango sui videogame e su noi videogiocatori?
R: Un tempo la cosa mi indisponeva molto, anche perché quando i media generalisti non se la prendevano con Carmageddon se la prendevano con, che so, gli Slayer. E io sono pure metallaro, quindi si sviluppava uno snervante circolo vizioso etichettabile come “effetto Calimero” – quella condizione patologica in cui di solito si alternano pulsioni suicide e omicide in parti uguali e si finisce per divenire eroinomane o ascoltare i Radiohead. Oggi la vedo in modo diverso, la vedo un po’ come delle recensioni cinematografiche fatte da Quattroruote, per citare Maccio Capatonda, o servizi televisivi sulla fisica delle particelle fatti dalle Iene: roba non rilevante. Purtroppo so che il pubblico è spesso influenzabile, ma d’altronde esistono pure i terrapiattisti.
D: Infine le chiedo, faresti avvicinare un tuo figlio, nipote o chicchessia a questo mondo oramai evoluto rispetto a quando hai cominciato tu? Se si, perché?
R: No, perché il gioco è mio e ci voglio giocare io.
Ed è tutto qui. Un ringraziamento speciale a Diego Pierini che ci ha dato la possibilità di intervistarlo. “Vite Infinite” è un libro che consigliamo fortemente per tutti coloro che, almeno un pò, amano il mondo videoludico e sentono un po’ di nostalgia dei vecchi Amiga.
Lascia un commento